JULIAN COPE
“Self Civil War”
(Head Heritage, 2020)
Non demorde lo stentoreo sacerdote arcidruido gallese Julian Cope: anzi nel 2020 rilancia una sua personale strenua “guerra civile” (auspicandola probabilmente anche a noi) contro l’intorpidimento progressivo quotidiano dei sensi e della coscienza perpetrato dal bombardamento dei mass-media e dei social (Your Facebook, My Laptop), annunciandola attraverso il titolo di questo suo nuovo lavoro in studio e la sua ormai da tempo mitica etichetta/rifugio anti-atomico Head Heritage. Consta di quasi un’ora e un quarto di musica (proverbiale la prolificità creativa di Cope) questa Self Civil War, divisa programmaticamente in quattro fasi, presentata quale prima parte di una serie discografica dal significativo nome Our Troubled Times. Non mancano (anzi abbondano) i “soliti” visionari colpi di genio che l’artista ha sempre elargito con munificenza attraverso gli anni, musicalmente ricchi di tastierine sixties vintage, grand piano, chitarre acustiche, archi, magnificati dalla sua voce carismatica.
Si può beneficiare di intuizioni e sviluppi compositivi imprevedibili, accattivanti, lisergici (Berlin Facelift, That Ain’t No Way To Make a Million, A Cosmic Flash), di stupende slow ballad (A Dope On Drugs, Immortal), più di una volta (You Will Be Mist, The Great Raven, Einstein) memori addirittura – corsi e ricorsi, si può supporre, di un vecchio artista – dell’ispirazione di quel Wilder che fu il vero capolavoro in studio dei Teardrop Explodes, l’indimenticata band new wave anni ’80 di Cope da riascoltare e riscoprire, che come lui stesso scrive nel suo sito “… rifiuta di morire ma non si riunirà mai”. Per stigmatizzare quel gruppo, tra le numerose iniziative promosse dalla sua Head Heritage, Cope ha confezionato di recente un package che comprende un booklet di 48 pagine con fotografie, liriche, poemi, note e scritte a mano mai pubblicate prima ed un CD di 42 minuti con grooves musicali perduti T.E. del periodo 1978-1982 accompagnati da sue declamazioni poetiche.
Si possono avvertire (volendo) echi del Neil Young più elettricamente prolisso nei quasi dodici minuti dell’ossessiva magnifica Requiem For A Dead Horse, sintomo insieme ai quasi otto di A Victory Dance di una impenitente bulimìa e di metastasi di scrittura già ampiamente manifestatesi nei precedenti lavori in studio, giustificate come già su accennato dalla genialità di un artista che non ha mai tradito se stesso e la sua fede in una “controcultura” alternativa musicale ed espressiva. Avremmo invece fatto volentieri a meno in A Victory Dance della metallica chitarra di Christopher Holman (suoi gli interventi anche nelle geniali A Cosmic Flash e That Ain’t No Way To Make A Million) e del suo interminabile, pedante, inutile solo strumentale che Cope al contrario pare ostentare nel disco con orgoglio. Probabilmente avrebbe giovato a Julian e a questo Self Civil War (ma solo su questo) una maggiore sobrietà. Per il resto non c’è nulla da gettar via in questo ennesimo ottimo lavoro del quasi sessantatrenne musicista.
Pasquale Boffoli
Head Heritage: https://www.headheritage.co.uk/
Julian Cope Social: https://www.facebook.com/juliancope12345
That Ain’t No Way To Make A Million: https://www.youtube.com/watch?v=y9femHb5rZQ