AGITATION FREE
“Malesch”
(Vertigo, 1972)

Per questo nuovo capitolo di “Pietre Nascoste dal Sottosuolo” voglio parlare di Malesh degli Agitation Free, anno di pubblicazione 1972 sulla famosa etichetta Vertigo. La storia che ha portato alla genesi di questo disco è molto curiosa e merita di essere raccontata. Gli Agitation Free nascono a Berlino intorno alla metà degli anni ’60, e, come la maggior parte delle formazione di area krautrock teutonica, iniziano con cover è rifacimenti di gruppi inglesi quali Beatles e Kinks. Poi avviene l’incontro con il sound dei Pink Floyd e, come per altre compagini come i Tangerine Dream, fu la svolta verso la musica cosmica. Però l’occasione che cambiò il corso della loro carriera avvenne durante un’esibizione a Parigi. Qui conobbero il console tedesco che si infatuò delle loro performance e propose loro di esibirsi in Medio Oriente con una serie di concerti dietro il patrocinio del Goethe Institut; lo scopo è quello di promuovere la cultura tedesca mediante concetti musicali ed eventi culturali presso le popolazioni mediorientali. Gli Agitation Free suonano in Libano, in Egitto, in Giordania, in Libia, anche in Grecia e a Cipro e da ognuno di questi paesi assorbono influenze musicali e registrano anche sul posto brani di canzoni popolari mediorientali.

Ecco che vengono poste le basi per Malesh, per una svolta nell’orientamento musicale della band. Se prima di quest’esperienza gli Agitation Free intendevano proseguire nel solco di una musica cosmica alla Tangerine Dream, dopo la permanenza in Medio Oriente decidono di imprimere una visione più mistica all’impostazione cosmica di base. Chiariamo un punto per non cadere in equivoco. In Malesh non sono preponderanti le atmosfere etniche mediorientali ne vi è alcun citazionismo di musiche tradizionali provenienti da quell’area del mondo (a parte qualche brevissimo accenno). Non è un disco etnico nel senso letterale del termine. È un album di Kosmische Musik che però è pervaso dal misticismo e dal concetto di flusso di coscienza che la band ha assimilato dopo quell’esperienza in paesi esotici. L’etnico, qui, è una presenza discreta sul piano iconografico mentre su quello iconologico contribuisce a forgiare il nous di tutto il disco. Un parallelismo coi Tangerine Dream aiuta a comprendere meglio, che tra l’altro sono berlinesi come gli Agitation Free. I Tangerine Dream sviluppano e portano all’estremo compimento la lezione dei Pink Floyd cosmici di Interstellar Overdrive e A Saucerful Of Secrets, ed elaborano quella che è la Kosmische Musik per definizione: una musica che celebra il cosmo inteso come “kosmos”, l’ordine supremo dell’universo. E lo fanno elaborando un suono dilatato che vuole essere una contemplazione dei misteri dell’universo, di quell’ordine che regola il flusso dei pianeti e delle stelle dopo il disordine del Caos primordiale e il Big Bang.

È una musica monumentale quella dei Tangerine Dream (basta solo ascoltare qualche pagina di Alpha Centauri o di Phaedra), una musica che celebra le meraviglie dell’universo con un approccio sinfonico, sovente chiesastico, quindi con quell’intento contemplativo che è proprio della cultura romantica teutonica e quello spirito “Sturm und Drang” che fu di letterati come Goethe e Schiller. Se Schiller ha scritto l’inno alla gioia, poi musicato da Beethoven nella sua celeberrima nona sinfonia, i Tangerine Dream del primo periodo hanno composto l’inno al cosmo nelle sue diverse versioni. Con gli Agitation Free siamo su un piano differente. L’esperienza maturata presso le popolazioni mediorientali ha trasformato la visione psichedelica e cosmica originaria in una musica del flusso di coscienza. Che cosa si intende per musica del flusso di coscienza? Si intende una formazione e relativa produzione musicale che traduce nel linguaggio delle 7 note il concetto di flusso di coscienza. Nel caso degli Agitation Free il terreno era già preparato, perché fin dalle origini propongono un suono basato sulla libertà espressiva che si esprime in lunghe suite lisergiche di scuola pinkfloydiana. Quello che è cambiato dopo la permanenza in Medio Oriente è che l’esperienza mistica dei ritiri spirituali e dei contatti con le culture musicali del luogo ha permesso di indirizzare e poi calibrare l’afflato cosmico iniziale verso una dimensione più mistica e tale dimensione mistica ha aperto la strada a una ricerca musicale in cui le radici cosmiche incontrano il tema del flusso di coscienza. Spieghiamo a grandi linee il flusso di coscienza.

È una tecnica letteraria che consiste nel rappresentare i pensieri come si manifestano liberamente nella mente dell’uomo. Alla loro rappresentazione libera segue poi un’organizzazione in un testo letterario secondo regole logiche. Ma questa subentra come processo successivo e sussidiario. Quello che conta è la libertà espressiva: i concetti passano attraverso la mente in libertà come un flusso incontrollato e la creazione letteraria diventa un monologo dove realtà e pensiero, inconscio e coscienza fluiscono liberi senza barriere. Il diaframma che separa la percezione dei fenomeni esterni e la rielaborazione mentale viene abbattuto. Lo scrittore che meglio di tutti ha saputo rappresentare il flusso di coscienza è James Joyce, nella raccolta “Gente di Dublino” e nel capolavoro “L’Ulisse”. Gli Agitation Free creano una musica che è un flusso di coscienza musicale. L’album Malesch, concepito dopo il rientro da quel viaggio nei paesi mediorientali e nordafricani, è un lavoro che dall’inizio alla fine fluisce libero, come se fosse il risultato di pensieri che passano attraverso la mente e, anziché essere ordinati mediante racconto o capitoli di un libro, vengono organizzati in brani musicali. Non c’è distacco fra un brano e l’altro, sono legati da un fluido sonoro costante che li rende lemmi di un unico progetto sonoro badato sull’incontro fra l’inconscio e l’universo dei pensieri che sono conseguenza delle percezioni sensoriali.

È un album che nasce dall’inebriamento delle esperienze appena vissute ed è stato prodotto senza che alla base ci sia una progettualità, secondo i pensieri che passano liberi nella mente, pensieri che nascono dal ricordo visivo e sensoriale del viaggio in Medio Oriente. I pezzi sono stati concepiti durante il viaggio, al rientro in Germania si è provveduto a realizzare e produrre il disco. Piuttosto che riproporre con modalità citazionistiche le suggestioni musicali etniche assimilate, hanno scelto di assorbirle nella loro primeva visione cosmica e di trasformare la loro Weltanschsuung di corrieri cosmici in mistici viaggiatori del flusso di coscienza. Malesch è un disco che presenta molteplici sfaccettature. È un lavoro di assoluta libertà espressiva che viene realizzato senza freni inibitori, lasciando viaggiare la mente a seconda delle sensazioni che sta provando, a volte con magmatica coesione di forze, a volte con luminescenze cosmiche che mettono in contatto cielo e terra con le abbacinanti solitudini del deserto, a volte con rievocazioni di sinuose e ipnotiche danze del ventre.

Ed ecco in che modo entra in gioco il concetto di etnico. Una rappresentazione musicale diretta dell’etnico non riuscirebbe a comunicare il medium del disco. Ergo per sopperire alla bisogna è necessario che il valore dell’etnico si mantenga su un piano iconologico, mentre su quello iconografico è bene che sia solo accennato. Ascoltando il disco si riescono ad evocare danze del ventre e immagini di carovane nel deserto però le stesse sono filtrate dalle lente di una lisergia cosmica che ne rende difficile l’individuazione. Invece è molto presente l’etnico come significato che non come componente musicale. È il viatico che permette di raggiungere quella dimensione spirituale da liberare la mente dai suoi legami con le preoccupazioni terrene e con le contingenze di una quotidianità sempre uguale negli attimi che trascorrono. Una mente liberata è una mente che si apre al flusso di coscienza e riesce ad esprimere tale flusso in musica. Il termine Malesh è preso dell’antico Egitto. Si può tradurre con “pazienza” ed è un invito a prendere la vita senza sofferenza e senza lasciarsi travolgere dai patemi.

Ora l’analisi per ogni singolo brano.

You Play For Us Today. Voci parlate che paiono provenire da uno sceneggiato sono l’inizio di uno dei brani dal più alto potenziale ipnotico di tutto il krautrock. Un synth che dipinge una monumentale scia cosmica e poche sincopi di basso preparano il terreno a una lisergica marcia nel deserto sorretta da percussioni tribali: pare essa evocare una carovana di cammelli che procede sotto il sole cocente del Sahara, grazie anche al synth che accenna placide musiche mediorientali. Poi la chitarra che crea un magma sonoro che rende ancora più ipnotico questo incedere carovaniero e il suo crescendo lo sublima in un viaggio fra le stelle. Brano dalla forza indescrivibile che trasporta l’immaginario arabo e nordafricano delle secolari traversate del deserto dei mercanti in lunghi caffettani bianchi con le carovane dei cammelli fra le volute cosmiche del cielo e il suo potere ipnotico è capace di straniare l’ascoltatore mediante un rapimento mistico della mente che media fra un viaggio nel cosmo e un lento peregrinare di lunghe file di cammelli e lo trasporta in uno spazio ulteadimensionale dove la terra, qui identificata nella sacra solitudine del deserto, crea un contatto subliminale con la volta celeste. Il brano procede con un muro sonoro a base di synth che ricorda il ghibli, il vento tempestoso del Sahara e con voci parlate in tedesco che paiono prese da un vecchio film in bianco e nero.

Sahara City. Breve citazione di una musica etnica mediorientale che apre il sipario verso una minimale evanescenza cosmica che crea un vaporoso muro di sabbia e luce dal quale riducono note di chitarra e battiti di batteria. Il brano si può definire una fusione tra i Popol Vuh e certe atmosfere ambientali che Brian Eno realizzerà anni dopo. Ma è ricco di microvariazioni che fanno capolino in questo sfondo di proto-ambient cosmica: un rullare di batteria, ticchi di chitarra acida, piccole percussioni che fanno da metronomo. Poi, nella seconda parte, tutto cambia e prende corpo un montante rock cosmico che ricorda certe divergenze wagneriane degli Amon Düül II però sgravati dagli aspetti più scuri e tribali. Le chitarre ormai hanno preso il sopravvento e si sono lanciate in una libera improvvisazione.

Ala Tul. Rumori di traffico che potrebbero essere quelli di una città come Il Cairo o Amman e stridenti rasoiate rumoriste di synth aprono a un ipnotico mantra cosmico a base di ondulazioni ipnotiche di tastiera e una ritmica di basso e batteria orientata al funky. Le tastiere dipingono una sinfonia minimalista che pare una sorta di incontro fra Philip Glass e Terry Riley per poi lasciarsi trasportare dalla lisergia. Poi subentrano percussioni etno-ipnotiche che precorrono certo passaggi del Philip Glass di Powakkatsi, fino al punto che rimangono esse gli unici attori in gioco e terminano il brano.

Pulse. Fra tutti i brano del disco questo è il più cosmico. È costruito su una possente e minimale linea di synth che man mano che si va avanti si fa più intensa e viene affiancata da altre scie luminose che prendono la piega verso lievi oscillazioni ipnotiche in continua iterazione da mandare in visibilio per la forza allucinata che possiedono. Come se fosse una versione cosmica del minimalismo di Steve Reich e Terry Riley. Ma poi subentrano colpi di chitarra acida e pesanti botte di batteria e il pezzo va in progressivo crescendo con il synth che dipinge ondulate linee da viaggio interstellare. Brano decisamente spaziale che evoca l’energia luminosa dei quasar.

Khan El Khalili. Il titolo è il nome del più grande bazar del Cairo. Parte anche qui con un synth che stavolta appare più chiesastico ed è arricchito da cori celesti, come se fossimo preda di un’autentica crisi mistica da adepto di pratica sufi. Poi piccole percussioni e abrasive frasi di tastiera annunciano una divagazione psichedelica di stampo pinkfloydiano fatta di chitarre lisergiche sognanti e ben rifinite che vaga come un viandante nel deserto, seguita, a ruota, dall’andamento incalzante delle percussioni. Brano dal carattere onirico molto vicino a certe cose dei Popol Vuh.

Malesh. Il canto di un muezzin, preso direttamente dal vivo sul campo, è l’introduzione di una jam di oltre 8 minuti e mezzo di pura lisergia che mette in comunicazione i Pink Floyd più stellari con certe derive raga-rock californiane. Ma sempre con quell’approccio minimalista del synth che regge tutta l’impalcatura sonora e sempre con quel crescendo di intensità che, da un inizio in sordina, porta a veleggiamenti pindarici verso la conclusione del brano. Un basso dalle linee blues fa da stampella a questo lungo raga cosmico, mentre le chitarre si fanno sempre più liquide nel tratteggiare le loro ricamature psichedeliche e il senso del lungo e ipnotico raga persiste nel pervadere lo spazio circostante, mentre una concitata batteria segue l’andamento del brano e lo rinforza. Poi di nuovo il vento del ghibli a spazzare via tutto.

Rücksturz. Breve finale di disco nella forma di una decisa chiosa lisergica di chitarra pinkfloydiana. Brano posto in chiusura come sigla finale, come fine delle trasmissioni per un album che è tutto un viaggio.

Marco Fanciulli

 

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