AIR
“Moon Safari”
25th Anniversary Edition
(Source, 1998 / Parlophone, 2024)
Nel 1998 avevo iniziato da pochi mesi a lavorare in una grande azienda e la nuova disponibilità economica mi permise di acquistare la mia prima auto ed essere finalmente indipendente anche negli spostamenti. Inoltre, con la mia ragazza, che poco dopo diventò mia moglie, decidemmo di fare il grande passo ed andare a vivere insieme. A fine anni ’90 il mondo mi sorrideva e sembrava sorridere a tanti giovani che si rendevano indipendenti e raccoglievano i primi successi della vita. Anche nello sport le cose andavano al meglio: il 1998 fu l’anno magico del grande Marco Pantani che entrò nella leggenda vincendo Giro e Tour, la Virtus Bologna di Danilovic vinceva la sua prima Eurolega di basket, la Francia diventava campione del mondo nel calcio … e proprio in Francia si stava assistendo ad un periodo di nuova creatività e libertà anche in ambito musicale. I Daft Punk si erano fatti conoscere con i primi singoli e l’album Homework e il french touch, il “tocco francese” che caratterizzava tanta musica d’oltralpe all’epoca che aveva come principali rappresentanti Etienne De Crècy, Laurent Garnier, Dimitri from Paris, Motorbass, Cassius era già sulla bocca di tutti. Un’amica francese, che allora iniziava le superiori, mi ha recentemente detto che anche per lei tutte queste nuove band rappresentavano una incredibile ed eccitante novità, qualcosa di mai visto e sentito prima in Francia, tanto che li ribattezzò “les UFOs”, dei veri e propri UFO musicali. Nel 1998 non avevo una grande conoscenza della musica francese del passato, l’unico artista che conoscevo un po’ era Serge Gainsbourg, di cui avevo preso le tre raccolte retrospettive pubblicate a metà degli anni ’90 e poi recuperato i due album reggae degli anni ’70. Per questo fui abbastanza sorpreso quando, recandomi nel negozio di dischi che frequentavo in Val Camonica, la commessa mi avvertì che era uscito il singolo di un nuovo gruppo francese chiamato Air. “Secondo me ti piace.” mi disse mentre metteva sullo stereo Sexy Boy.
Durante quel primo ascolto non ne fui particolarmente impressionato, forse mi aspettavo un pezzo alla Daft Punk, invece sentii quello che mi sembrò un buon pezzo synth pop e nulla più, anche se l’arrangiamento era intrigante, con quei “pum” che ricordavano la vecchia disco music. Espressi le mie perplessità alla ragazza, che era invece entusiasta della canzone, e mi disse delusa: “Settimana prossima ci arriverà l’album.”. Album che non comprai subito, ma lo comprò una cara amica e me lo duplicò su CD: inutile dire che in poco tempo la mia idea sulla band cambiò radicalmente e per settimane quel CD-R fu in sempiterna rotazione nel mio lettore. Gli Air non erano sbucati fuori dal nulla: i due componenti, lo studente di architettura Nicolas Godin e il professore di matematica e amante dell’astrofisica (con moglie e figlia piccola da mantenere) Jean-Benoît Dunckel si conoscevano sin dalle scuole superiori ed avevano fatto parte di un gruppo indie rock chiamato Orange, che non aveva riscosso grande interesse in patria. La nuova onda elettronica però aveva colpito anche loro, ma intelligentemente seguirono una via molto diversa da quella dance di Daft Punk e compagnia. Chiusi in un garage del diciottesimo arrondissement di Parigi, con solo un campionatore, un registratore ad otto piste, tastiere e microfoni, ma “sognando di essere negli studi della Capitol Records, circondato dai migliori musicisti, sentendosi come Burt Bacharach” (dice Nicolas Godin nelle note di questa edizione dell’album), i due avevano già nel 1995 registrato il primo brano, Modulor Mix, che venne pubblicato su 12″ in UK dall’etichetta Mo’ Wax, allora l’etichetta più à la page del trip hop. Seguirono poi altri due singoli, raccolti successivamente nell’EP Premiers Symptômes. Queste prime prove ebbero una buona accoglienza presso la stampa anglosassone, mentre in Francia la stampa locale si chiedeva se gli Air fossero inglesi. Da ciò che mi ricordo, in Italia non ne avevo ancora letto sulla stampa specializzata, quindi quello che potevo ascoltare in quei primi giorni del 1998 rappresentava per me una completa novità.
Il 16 gennaio 1998 Moon Safari arrivava nei negozi e in un poco più di un mese era già un successo mondiale. “Il successo fu un’esperienza violenta.”, ricorda Jean-Benoît Dunckel 25 anni dopo nelle note dell’album, “La musica degli Air non è così facile da comprendere. Il format è strano, le voci sono strane, gli argomenti dei testi sono strani. Persino Sexy Boy suona strana. Eravamo un duo con una specie di progetto elettronico, che sognava di vendere diecimila copie ed essere riconosciuto come figo dagli altri musicisti. Poi improvvisamente incontrammo il mondo.”. L’album proietta l’ascoltatore in un’orbita retrofuturista, attraverso l’uso di un’elettronica analogica vintage fatta di Moog e altre diavolerie elettroniche comprate al mercato dell’usato, corroborata da strumenti elettrici per una musica che è memore delle colonne sonore di Morricone e Piero Umiliani, dei film di fantascienza, di Burt Bacharach, degli album incisi negli anni ’70 da Serge Gainsbourg, come anche dei Kraftwerk, di Jean-Jacques Perrey, di certa fusion e ambient, della new wave, ma anche di Stereolab e Portishead, per citare artisti a loro contemporanei.
L’artwork della copertina, opera dell’artista visuale newyorkese Mike Mills (no, non è il bassista/tastierista dei REM, solo un omonimo), raffigura il duo parigino come esploratori del cosmo, con tanto di cappello da safari e la loro astronave è un pulmino Volkswagen a cui sono state montate delle ali. Accanto al logo con il nome della band è stata posta la dicitura “french band”, per evitare fraintendimenti. La prima canzone, La Femme d’Argent, uno strumentale lungo 7 minuti, ci fa subito precipitare nell’atmosfera sognante dell’album, a partire dal suono del basso elettrico, quel suono che sembra tolto di peso da Histoire De Melody Nelson di Gainsbourg (e che a mio parere è il miglior suono di basso della storia), alle fluide percussioni (un campione preso da Runnin’, brano di Edwin Starr del 1974, uno dei due soli campionamenti usati nell’album), al fido Fender Rhodes di JB Dunckel. Il suono del Moog, di Korg, mellotron e wurlitzer aiuta poi a prendere posto in quel vecchio Volkswagen che è l’astronave Air e partire per un viaggio intergalattico. E poi ancora battiti di mani, cori monacali, lo stop a metà brano con l’ingresso del pianoforte: ci sono più idee in questi 7 minuti che in intere discografie di tante band. Proseguiamo poi nell’ascolto e ritroviamo Sexy Boy, uscita come singolo di grande successo e che abbiamo citato prima, cantata da Nicolas e JB con un testo ironico in francese, vede la presenza della batteria acustica, chitarre elettriche e delle onnipresenti tastiere. Il terzo brano, All I Need, è la prima collaborazione con la cantautrice americana Beth Hirsch, che firma anche il testo. Hirsch era giunta a Parigi qualche anno prima come ragazza alla pari e si era ben presto fatta conoscere cantando nei club e nei party sulla Senna che la portarono poi ad incidere un EP. Godin e Dunckel la conobbero tramite un produttore amico comune e le proposero di collaborare alla scrittura e ad interpretare due brani del disco, una collaborazione davvero fruttuosa, non solo per il successo del singolo ma perché porterà poi Beth Hirsch ad incidere due album solisti, all’inizio degli anni Zero. In All I Need, Beth descrive a brevi flash la sua esperienza parigina, cantando con un originale fraseggio sopra un tappeto di chitarra acustica e Rhodes con inserti di synth, un vero e proprio capolavoro. Nell’altra canzone da lei interpretata, You Make It Easy, è ancora la chitarra acustica a menare le danze mentre il testo ci trasporta in un’atmosfera romantica, con i synth, gli arrangiamenti orchestrali di David Whitaker e un glockenspiel a puntellare il tutto.
Kelly Watch The Stars, terzo singolo tratto dall’album e altro successone, con riff insistente ed accattivante suonato al Moog basso, voce vocoderizzata di Godin che ripete ad libitum il titolo della canzone, ancora il glockenspiel ad enfatizzare ed un piano svolazzante sul ponte del brano. La canzone è dedicata a Jaclyn Smith, la Kelly delle Charlie’s Angels, che Godin considerava la donna più bella del mondo. Talisman invece è un altro strumentale, con il Rhodes a svolgere il tema del brano ed ancora il basso caldo alla Gainsbourg, con favolosi inserti orchestrali che ci trasportano oltre l’esosfera. In Remember la voce al vocoder di Godin viene esasperata e qui viene utilizzato l’unico altro campione del disco, la batteria compressa di Do It Again dei Beach Boys, per una canzone che starebbe benissimo nei titoli di coda di un film di fantascienza. Ed arriviamo poi ad un altro dei brani iconici degli Air, lo strumentale Ce Matin-Là. Un brano la cui atmosfera a me ha sempre ricordato quella di Everybody’s Talkin’ dalla colonna sonora del film “Un Uomo Da Marciapiede”, con l’arpeggio di chitarra acustica, il crescendo orchestrale e l’inserto dell’armonica a bocca. Il tema del pezzo è svolto dalla tuba suonata da P. Woodcock, accreditato come coautore, che ricorda con nostalgia proprio quella mattina, facendocela rivivere di nuovo con commovente bravura. New Star In The Sky è un omaggio all’astrofisica, passione di Dunckel: “la mia nana blu è una nuova stella nel cielo” canta Godin dentro il vocoder, un altro viaggio in uno spazio di infinite possibilità, con un finale che mi ricorda i Kraftwerk di album come Ralf + Florian o Autobahn. Chiude infine il disco Le Voyage De Pénélope, uno strumentale molto rilassato, dalle tinte jazz fusion, con dei fiati sintetici che ci guidano verso la fine del viaggio.
Nell’edizione per il venticinquennale dell’album (uscita con un anno di ritardo, a marzo 2024) c’è un bonus CD con brani molto interessanti che ci fanno capire cosa è successo prima e dopo Moon Safari. Ci troviamo due remix fatti per altri artisti, Kootchi di Neneh Cherry e Purple di Crustation, in cui entrambe le canzoni subiscono il trattamento spaziale del suono Air. Poi una outtake, la struggente Dirty Hiroshima, le versioni demo di New Star In The Sky e Ce Matin-Là, con New Star che sembra quasi un’altra canzone, dal ritmo molto più spedito e prossimo alla dance, con voci di bambini in sottofondo, mentre Ce Matin-Là è molto simile alla versione dell’album. Abbiamo poi la favolosa cover di Maggot Brain dei Funkadelic, registrata dal vivo nel 1998, dove il lungo assolo di chitarra dell’originale è sostituito da synth siderali. E ancora, tre brani da una live session registrata alla BBC il 20 maggio 1998, con i Phoenix come backing band: “rovinammo abbastanza gli Air, distruggemmo il loro sound” ricordò poi il leader dei Phoenix, Thomas Mars (ma le due band sono tuttora in ottimi rapporti di amicizia). J’ai Dormi Sous L’Eau è uno strumentale tratto da Premiers Symptômes in una versione indie-pop, Sexy Boy viene completamente destrutturata e rimontata alla maniera dei Daft Punk (e dei Phoenix), mentre Kelly Watch The Stars diventa un punk rock’n’roll con chitarre distorte. Completano il CD la versione estesa di Kelly prodotta da Etienne De Crecy e la versione puramente orchestrale di Remember arrangiata da David Whitaker. Il CD bonus si conclude qui, ma nei servizi di streaming si possono trovare altri brani come il funkettoso Moog Cookbook remix di Kelly Watch The Stars, il Sex Kino Mix di Sexy Boy fatto da Beck, due brani registrati live nel 1998 con i Phoenix presso l’emittente americana KCRW, lo strumentale Trente Millions D’amis e You Make It Easy (con Beth Hirsch), e il demo Bossa 96, quasi una primitiva versione della stessa You Make It Easy. Completa questa nuova edizione un blue ray in cui, oltre alle versioni Dolby Atmos e Stereo HD dell’album originale, si trova “Eating, Sleeping, Waiting And Playing” un documentario di un’ora girato da Mike Mills a New York, Londra e Parigi durante il tour mondiale nel 1998. Per finire sempre, sul blue ray, troviamo I 4video girati da Mike Mills: in Sexy Boy, Dunckel e Godin, vestiti da esploratori, inseguono un pupazzo scimmia lungo le strade di New York e nel cosmo a bordo dell’astronave Volkswagen.
In Kelly Watch The Stars, una partita al videogioco Pong si trasforma in una accanita partita di tennis da tavolo tra due ragazze, con tanto di allucinazioni spaziali. In All I Need la canzone diventa un pretesto per raccontare la storia d’amore tra un ragazzo e una ragazza (con tanto di intervista ai protagonisti) sullo sfondo di una periferia residenziale americana. In Le Soleil Est Pres De Moi, da Premiers Symptômes, vengono invece semplicemente rimontate sequenze dal documentario del tour del 1998.
Moon Safari è un capolavoro, uno dei dischi più importanti della fine del secolo scorso, recupera suoni e atmosfere del passato proiettandoli nel futuro attraverso una sapiente miscela di elettronica, strumenti elettrici ed acustici. Un album che ha retto benissimo alla prova del tempo, la sua atmosfera magica e spaziale risulta più che mai attuale, anche dopo centinaia di ascolti rimane uno splendido UFO, che sorprende sempre per un dettaglio, un arrangiamento o un particolare strumento di cui prima non c’eravamo accorti. Un disco a volte malinconico ma spesso solare, testimone dell’ottimismo che permeava l’Europa e il mondo occidentale alla fine degli anni ’90. Chiuderei citando le parole scritte e cantate da Beth Hirsch in All I Need, che rispecchiano perfettamente lo spirito che avvolge tutto l’album: “All in all there’s something to give, All in all there’s something to do / All in all there’s something to live / With you …”.
Mario Clerici
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