LOTHAR AND THE HAND PEOPLE
“Space Hymns”
(Capitol Records, 1969)
“È country elettronico, una specie di musica divertente suonata da nani pazzi, ed è davvero bello da ascoltare. Non c’è tensione qui, no forze stridenti in guerra tra loro. Può sembrare strano che New York, la città che deifica la velocità e la follia, possa produrre questa musica, ma è come se Lothar And The Hand People avessero attraversato questa follia e ne fossero usciti dall’altra parte, sorridendo.”. Così si espresse Lenny Kaye su Rolling Stone a proposito di questa stravagante formazione newyorkese. Le parole di Lenny Kaye sono garanzia di autenticità. Stiamo parlando di uno dei principali filologi, produttori discografici e scrittori di letteratura rock mai esistiti. Collaboratore nei testi di Patti Smith e membro dello stesso Patti Smith Group. Collaboratore e produttore discografico per una rosa di nomi importanti della controcultura rock (Jim Carroll, REM, Suzanne Vega) e soprattutto curatore della celebre antologia Nuggets, la raccolta che rivelò al mondo intero perle oscure dello psych-garage sixties, un’antologia di importanza basilare uscita nel 1972 che influenzò anche la cultura punk a venire ed uno dei capisaldi di tutta la musica underground di ogni tempo. Lenny Kaye è un mostro sacro della controcultura newyorkese e fu grazie a lui che potei arrivare ai Lothar And The Hand People. Quando ancora non c’era internet, recuperare informazioni su oscure informazioni di culto della fine degli anni ’60 era un’impresa ardua in Italia. Bisognava conoscere l’inglese almeno a livello scolastico perché riferimenti in italiano se ne trovavano pochi e quei pochi erano per di più approssimativi. C’erano autori illuminati come Matteo Guarnaccia che qualche dritta riuscivano a darla. C’erano riviste di settore come Rockerilla, che dedicavano uno spazio a oscure perle underground di quel periodo. E poi c’erano le fanzine, ciclostili di un manipolo di carbonari che nell’italietta provinciale e democristiana cercavano di portare avanti un discorso di archeologia psych di fine sixties, trattando numerose gemme oscure che altrimenti sarebbero rimaste sconosciute.
Questo era il meglio che si poteva trovare in Italia. Altrimenti ci si doveva affidare alla competenza dei negozianti e dei venditori di vinli; non certo ai commessi dei megastore che ne sapevano meno del fattorino che consegnava a mio padre le bollette, ma ai titolari di piccoli negozi di nicchia che hanno sempre portato avanti con passione e sacrificio la loro attività e che erano costantemente in prima linea nel documentarsi sulla materia. L’alternativa era conoscere l’inglese, non dico una conoscenza da letteratura shakespeariana ma una buona e solida base scolastica, e affidarsi alle riviste di settore come Ptolemaic Terrascope. Oppure alle ristampe in CD di questi lavori misconosciuti: uno dei grossi pregi delle ristampe in CD e in vinile di album culto della psichedelia di fine ’60 e dell’heavy-psych dei primi ’70 non è stato soltanto la possibilità di poter accedere a dei dischi che altrimenti era praticamente impossibile (gli originali costano cifre da accendere un mutuo … ma prima di tutto trovarli era un’impresa ardua e difficoltosa) ma è anche l’accurata messe di informazioni, precise, argomentate e circostanziate, che si potevano leggere sulle copertine o sui bugiardini delle edizioni in CD.
Lothar And The Hand People provengono da Denver, Colorado, ma si trasferirono a New York. Già questo la dice lunga, anzi, poco meno che tutto. New York alla fine degli anni ’60 è una metropoli che ha accolto il verbo psichedelico proveniente dalla California, però di riflesso e in una maniera che nulla aveva a che vedere con la West Cost. Nel DNA della Grande Mela è sempre esistito un Giano bifronte. Il primo volto è quello di un’avanguardia artistica che è figlia dell’afflato europeo che da sempre contraddistingue la metropoli nordamericana (che trova il suo nadir nel MOMA e nel Guggenheim Museum), nel senso che è la metropoli che meglio delle altre ha saputo accogliere le istanze avanguardistiche di tutte le forme d’arte provenienti dal vecchio continente e a farle sue. Il volto speculare a questa ricerca colta è una controcultura che attinge dal marcio dei bassifondi – parliamo di una New York che poco o nulla aveva a che fare con l’attuale città ripulita dalla storica zero tolerance del sindaco Giuliani – e la rende poesia, la poesia di un’aspra, perversa e sanguinolenta marginalità. Una New York che parte dai Velvet Underground, passa per i Suicide e il movimento no-wave e termina con il sanguinoso canto del cigno degli Unsane negli anni ’90. Lothar And The Hand People fanno parte della New York underground dell’ultimo scorcio degli anni ’60. Da questa New York elaborano una loro personale visione della psichedelia. Completamente diversa da referenti californiani che sono legati ad un tipo di sperimentazione, sull’impianto armonico e melodico della creazione musicale, che rielabora, sotto una nuova luce, i canoni della tradizione americana che vanno dal country e blues al rock’n’roll. Invece Lothar And The Hand People partono da un discorso musicale grezzo e quasi lo-fi, lo rivestono di un abito psicotico e lo condiscono con elementi presi dall’avanguardia elettronica. Utilizzano il theremin nelle loro composizioni e prima ancora dell’avvento del prog fanno uso del sintetizzatore moog. Quest’ultimo venne loro procurato da Robert Margouleff della Tonto’s Expanding Head Band, un’altra compagine molto interessante di fine sixties che fa uso dell’elettronica. Il theremin è uno strumento che prende il nome dallo scienziato russo che lo inventò: Lev Theremin. Consiste in un’antenna, posizionata su una cassa armonica, la quale produce delle oscillazioni che con il movimento della mano intorno all’antenna diventano note musicali amplificate dalla cassa. Uno dei primissimi strumenti elettronici della storia. Il moog è un sintetizzatore a tastiera, inventato dall’ingegnere americano Robert Moog, capace di produrre un ampio spettro cromatico di suoni. È lo strumento principe del prog inglese, quello che consacrerà alla fama musicisti come Keith Emerson e Rick Wakeman.
I Lothar And The Hand People sono molto vicini ad altre due compagini newyorkesi più di quanto sembra. Parliamo dei Velvet Underground e dei Silver Apples, fatto che testimonia una comune Heimat sperimentale legata alla città di New York. Con i Velvet Underground condividono l’incontro fra un suono più grezzo del rock e la sperimentazione avanguardistica, la capacità di creare un ponte diretto fra queste due componenti senza ricorrere a elaborate alchimie e passaggi intermedi. Con i Silver Apples hanno in comune la produzione di un tipo di sound metropolitano, alienato e psicotico che nasce da istanza lisergica e utilizzo di elettronica pionieristica. Ma la band newyorkese ha anche dei punti in comune con Frank Zappa e Captain Beefheart. Da entrambi hanno assimilato l’espediente della decostruzione della materia sonora che non è deroga di dissonanza ma edificazione di una nuova estetica formale sonora. Il brano viene destrutturato in una maniera che potremmo definire dadaista: nel senso di una decodifica concepita allo scopo di creare una nuova forma di arte e non una gratuita destrutturazione dei canoni della canzone.
Quindi i Beatles. I quattro ragazzi di Liverpool che con le loro melodie pop hanno conquistato il mondo. Sono un altro punto di riferimento per Lothar And The Hand People, al punto che alcuni brani potrebbero essere scambiate per delle outtake degli Scarafaggi. Ma qui vado ancora oltre: e se Lothar And The Hand People avessero scoperto il segreto dei Beatles? Quello di avere inventato l’arty-pop? Si perché, per uno strano processo di rivelazione, ascoltando i primi si perviene alla conclusione che i ben più celebri secondi hanno inventato l’arty-pop e sempre i primi ne hanno valorizzato il nous intrinseco. Al punto che dell’arty-pop beatlesiano ne hanno fatto una loro propria variante in nome di un psych-arty-pop pregno di umori freak. Il freak è un altro elemento. L’ontologica attitudine portata alla stravaganza del freak che contraddistingue questa formazione. Un modo di essere freak che non è solo esteriorità anticonvenzionale ma prassi esistenziale di un modo di sentire la musica e la vita, anche con il dolcificante di una leggerezza pop, che può essere più efficace di tanti platealismi esibiti. Poi un essere freak portato avanti con ludica signorilità, il messaggio espresso con quella dose di bon-ton ironico, tutt’altro che l’istrionismo graffiante. Anche nell’essere freak sono zappiani, però il lato più galante della zappianeria. Anche l’utilizzo dell’elettronica va letto con il giusto approccio. Tutt’altro che un’elettronica povera di musicisti che non hanno le basi in fatto di avanguardia elettroniche e vogliono semplicemente creare un maquillage ludico. L’uso dell’elettronica è sapiente, dimostra una certa conoscenza della materia. Non c’è invasione di campo del mezzo elettronico ma la giusta calibratura per creare il necessario equilibrio di masse sonore, senza prevaricazione e senza disarmonia delle parti.
Si parla, più che di eccentricità, di un eclettismo. Però prima ancora che di eclettismo psichedelico sarebbe più corretto associare l’attributo eclettico ad un ambito concettuale pop. Perché il sound dei Lothar And The Hand People è una forma originale e poliedrica di musica pop. La psichedelia è un discorso tangenziale (siamo a New York, città che ha sempre accolto tangenzialmente la psichedelia californiana); non è un elemento di costrutto se vediamo in essa la classica prassi di allargare l’area della coscienza e di imbarcarsi in viaggi allucinati in preda a stati allucinatori. Diciamo che qui assume il ruolo di una veste, un abito stilistico che arricchisce la bisogna solo sul piano formale. Non è il fine ultimo: questo è rappresentato dalla creazione di un pop obliquo che è capace di sensazioni psicotiche ma rifugge da potenti slanci lisergici. E qui chiudiamo il cerchio con l’assunto espresso da Lenny Kaye: la band ha saputo metabolizzare i ritmi convulsi della Grande Mela e andare oltre alla follia collettiva della quale gli stessi sono fonte. Hanno varcato una soglia e sono passati dall’altra parte depurati e con uno strato di ironia freak. In un certo senso hanno ridicolizzato la frenesia della megalopoli.
Quella dei Lothar And The Hand People è avanguardia pop pura, immersa nella cultura di fine sixties, ma avulsa dalla prassi dominante di quella cultura, e cioè la psichedelia di stampo westcoastiano. Loro riflettono l’humus artistico di New York di creare avanguardia, di inaugurare uno dei tanti capitoli del modo di concepire l’innovazione in arte che è proprio di New York. E, per aprire detto nuovo capitolo, scelgono il pop e su questo impostano la loro idea di avanguardia musicale: la teoria dadaista e psicotica di un pop obliquo abbinato alla ricerca elettronica. Space Hymn esce nel 1969 ed è il secondo album. Il primo disco, Presenting … Lothar And The Hand People, risale all’anno precedente: è già indicativo della singolare arte pop della band ma rispetto a questo secondo disco è leggermente più acerbo. Con Space Hymn il sound si fa più compatto e definito e tutte le intuizioni già presenti nel primo album si ritrovano qui meglio sedimentate. In più c’è un orientamento verso un’elettronica cosmica che già anticipa di qualche anno i corrieri cosmici tedeschi.
Ora l’analisi per ogni singolo brano.
Yes, I Love You
Una filastrocca-ninna nanna psych pop, che piglia un certo sapore di straniamento onirico, apre le danze. È una morbida pop song lisergica che fa incontrare Beatles e Beach Boys mentre si fa un pic-nic sull’erba sotto un sole che manda raggi lisergici. Le melodie madrigalesche sono addolcite da una discreta presenza di fiati, i quali, con gli arabeschi barocchi e il soave e trasognato timbro vocale, fanno levitare la canzone pop sixties in una dimensione surreale.
Today Is Only Yesterday’s Tomorrow
L’ostrica pop che nasconde la perla irregolare dell’elettronica cosmica. Sinusoidali volute di theremin, introducono un pop di stampo vittoriano britannico su sincopi di piano ragtime e musica bandistica. La parte centrale è una divagazione che si esprime mediante una trotterellante danza delle spade tra perpetui tocchi di piano, che guidano il ritmo, e volute elettronico-cosmiche da immaginario sci-fi che creano uno straniante effetto psicotico. La sublimazione del concetto di arty-pop. Il finale è una stellare visionarietà di elettronica cosmica creata dal moog che anticipa già certe sideralità del prog cosmico degli anni ’70.
Midnight Ranger
Il fatto di trovare un brano di pura ortodossia westcoastiana, non è sintomo di riempitivo dovuto a scarsità di idee ma dimostrazione dell’imprevedibilità e dell’eclettismo della band. È una canzone che è byrdsiana fino al midollo nelle sue melodie folk-west coast, con i coretti al punto giusto e le partiture di chitarra di puro e limpido sogno on the road westcoastiano.
Sister Lonely
Uno stravagante blues che pare preso da qualche polverosa contrada del sud dell’unione e da qui inurbato a New York con una mano di vernice di pop psichedelico. Brano che mantiene sotto la scorza la sua grezza impalcatura prewar blues e che per un effetto di straniamento possiede un quid surreale.
Wedding Night For Those Who Love
Un pezzo che definire straordinario è ancora poco! Non ci sono frasi adatte per rendere la bellezza di questa sonata per pianoforte e theremin. La prima cosa da sottolineare è che, in questo brano, di americano non c’è proprio nulla. È un distillato di vecchia Europa fra i grattacieli di Manhattan che si esprime con una romantica vena di crepuscolarismo, soprattutto il theremin nel suo languido e contemplativo dialogare con un pianoforte che richiama l’atmosfera della Sonata al Chiaro di Luna di Beethoven trasportata dalla macchina nel tempo nell’immaginario cosmico sci-fi di fine anni ’60. Romanticismo europeo capace anche di creare un alone di mistero notturno particolare, nel quale non c’è il buio della notte come primo protagonista ma il fascino di un evasivo sogno irreale fra le spire dell’oscurità notturna. Perché questa è musica per staccare la spina e sognare. In più, quale elemento di maggior straniamento, un effetto elettronico pari all’electric jug dei 13th Floor Elevator. Ma è il theremin il vero protagonista, lo strumento che suona col movimento della mano, capace di creare sognanti e signorili volute melodiche senza tempo. Estetica vintage nel cuore di un sogno irreale notturno con lo stile preso dalla classica ottocentesca. Questo brano è più efficace nel creare quel connubio fra rock e musica classica di tanto pomposo prog a venire.
Heat Wave
La cover del classico soul di Martha Reeves & The Vandellas viene eseguita con una bella grinta rock’n’roll tradotta in una scorribanda pianistica puramente anni ’50, rivestita di umori pop sixties. Però quello che balza all’orecchio è il bridge a base di chitarra fuzz, fulminante come un proiettile, ad accompagnare un piano impazzito. Ovvero come prendere un brano di estrazione Motown sound e renderlo pari a un avventuroso e avvincente cameo sixties pop’n’roll. La giusta deriva psych del blue eyed soul.
Say “I Do”
Una profumata e morbida pop ballad dal sapore agrodolce. Con un retrogusto country dato dalla presenza, dietro le quinte, di una steel guitar e discrete pennellate di psichedelia pop. Uno di quei brani posti nel cuore di un album come momento di pausa e rilassamento dei sensi. Un pezzo di struggente bellezza.
What Grows On Your Head?
Un obliquo pop a base di fragorosi rullanti di batteria, chitarrine solari acid-pop, sprazzi di elettronica cosmica, un cantato quasi infantilesco. È un brano dal sapore vagamente dissonante nella struttura dove non risulta corrispondenza fra le singole componenti. Però è proprio questo il suo forte.
Sdrawkcab
Titolo enigmatico che in realtà enigmatico non è: è solo il termine “backwards” scritto all’incontrario. Sono i Beatles di Strawberry Fields Forever che hanno preso un aroma più freak e sottilmente demenziale. Se vogliamo trovare un brano che è uno stigma della perfezione arty-pop questo è il pezzo giusto. Stralunato pop beatlesiano che ora piglia di divagazione cosmica (soprattutto nel decollo spaziale finale a base di un muro di moog) ora piglia per una surreale song con un velo di sottile follia.
Space Hymn
Il brano che chiude il disco è un delirio cosmico di oltre 7 minuti. È un viaggio spaziale che contiene un inno intonato da una voce recitante, la quale pare sia trasmessa da un’onda radio proveniente da una galassia lontana. Elettronica e sitar che insieme formano un muro ipnotico cosmico, lo stesso sitar subisce una mutazione e, da strumento principe della cultura hippie e del suo fascino per l’India, diventa veicolo di improbabili e surreali traiettorie cosmiche. È come se ci trovassimo di fronte ad una metamorfosi, il raga lisergico indianeggiante viene sottoposto ad un processo di rallentamento e da qui lanciato nel cosmo: la deriva cosmica del raga indianeggiante che va oltre la soglia del tangibile e si trasforma in un poema epico dell’era spaziale, avulso dal reale e trasposto in una dimensione oltre la ionosfera. Verso la fine il parlato si trasforma in un cantato morbido e orante, con parole scandite sillabicamente a guisa di oracolo e un senso della melodia che rasenta la devozione: una preghiera rivolta alle meraviglie del cosmo.
Marco Fanciulli
Le foto nell’articolo di Lothar and The Hand People sono tutte di Neil Morse
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