PIETRE NASCOSTE DAL SOTTOSUOLO
Faine Jade
“Introspection: A Faine Jade Recital”
(RSVP, 1968)

Un unico album per questa meteora oscura emerso dalle nebbie dell’underground più sotterraneo della scena psichedelica di fine sixties. Faine Jade in realtà si chiamava Chuck Laskowski ed era originario di New York. Già il fatto di provenire dalla Grande Mela è indicativo: un ambiente culturale lontano anni luce dalla West Coast californiana, la culla del movimento psichedelico, e orientato verso l’Europa e le istanze culturali del Vecchio Continente. Infatti la psichedelia di Faine Jade guardava verso l’Inghilterra, verso i Pink Floyd di Syd Barrett, e non aveva niente a che spartire con la triade californiana Jefferson Airplane-Grateful Dead-Quicksilver Messenger Service. Fra le città americane New York è quella dominata da una cultura più europea ed è la metropoli dove le avanguardie storiche europee hanno attecchito e hanno dato vita al MOMA. Di conseguenza anche la musica è stata influenzata da questo afflato avanguardistico. L’underground newyorkese ha una storia lunga e gloriosa che inizia negli anni ’60, grazie a band come Velvet Underground e Silver Apples e arriva fino ai nostri giorni dove, nell’ultimo ventennio, si è sviluppata l’interessante scuola psichedelica di Brooklyn che fa capo a band come gli Oneida. Quello newyorkese è un underground popolato di personaggi e album veramente atipici e laterali, molti dei quali sono diventati punti fermi della musica. Cito a titolo esemplificativo The Velvet Underground And Nico, i due dischi dei Silver Apples, il primo Suicide, il movimento no wave rappresentato dall’antologia No New York curata da Brian Eno, l’old skool rap che ha dato origine alla rivoluzione hip hop. Ma le band di New York hanno sempre avuto quel quid di atipico, di originale, anche rispetto ai generi di riferimento: pensiamo ai New York Dolls che con una soluzione originale fondono glam e proto-punk, oppure ai Talking Heads, che hanno riscritto il pop dalle fondamenta.

La prima volta che sentii nominare Faine Jade fu grazie ad un pistolotto su Ptolemaic Terrascope. Appena ho letto che questo personaggio era originario di New York e che fece uscire nel 1968 un disco di psichedelia subito realizzai che dovevo procurarmelo. Ma i miei desideri, come accade sovente, si scontrarono con la solita italietta pre-internet e il suo mercato discografico da periferia dell’impero. Copie non si trovarono neanche a piangere in turco, quando andava bene i prezzi erano esorbitanti perché soltanto di importazione si aveva la possibilità di trovare il vinile. Dovetti accontentarmi di una ristampa in CD con inediti, peraltro registrata non in modo esemplare. Ristampa che rivendetti molti anni dopo quando riuscii a trovare su e-bay la ristampa in vinile della Sundazed. Al primo ascolto di quest’album subito mi accorsi di avere a che fare con un musicista newyorkese che era tutto meno che americano. Il suono del disco è targato Inghilterra e sa di Pink Floyd barrettiani fino al midollo, tant’è che mi venne il sospetto di avere a che fare con un artista inglese migrato a New York. Di più, addirittura mi era venuto lo schiribizzo che fosse Syd Barrett in incognito transfuga a New York per realizzare un disco ancora più fuori dagli schemi del solito. Pensiero subito fugato: da approfondimenti appresi che non si trattava di nessun Syd Barrett sotto mentite spoglie né di un suddito di Sua Maestà migrato nella Big Apple, ma di un americano newyorkese verace che ha le sue radici musicali nel garage sixties USA. Tracce di psichedelia californiana qui non c’è neanche l’ombra, così come non c’è l’ombra di declinazioni di divagazioni lisergiche particolarmente acide proprie di altre aree del Grande Paese, quali il Texas. L’unico riferimento a stelle e strisce è un organo doorsiano che affiora ogni tanto. Questo è un disco di psichedelia inglese barrettiana, e se proprio vogliamo trovarci qualcosa di americano a tutti i costi, può essere soltanto una certa obliquità laterale che solo l’underground newyorkese può dispensare. Siamo di fronte ad un Syd Barrett meno stralunato e alienato dalla sua tipica luce di follia e dal suo atteggiamento di folletto contafiabe lisergico. Questo semmai è una versione più impetuosa e nervosa di Syd Barrett, dominato da una maggiore foga acida, con aperture classicheggianti; qua e là affiorano dissonanze, melodie oniriche, quindi elementi contrastanti che denotano una personalità dal piglio lunatico che è stata largamente influenzata dal primo album dei Pink Floyd ma l’ha interiorizzato a suo modo. La follia di Syd Barrett viene, diciamo, ammorbidita e resa più accessibile ad una coralità hippie. Barrett era un uomo chiuso in se stesso, solo con i suoi fantasmi in una stanza mentale di incomunicabilità. Però il “pazzo diamante” Barrett vedeva nella follia una porta di accesso verso una dimensione parallela della coscienza.

Faine Jade non ha nulla di tutto questo ma assimila la lezione artistica di Syd Barrett per tradurla da un contesto di incomunicabilità e di isolamento ad uno opposto di coralità, di particella che è parte integrante di un universo che si chiama generazione hippie, e di questo universo ne rappresenta gioie e dolori. Ascoltando Introspection: Faine Jade Recital si sente – e il titolo stesso lo dice – un senso dell’introspezione. Ma questa non ha le caratteristiche del suo mentore Syd Barrett, è un’introspezione ossimorica, nel senso che parla a se stesso e parla ai suoi simili figli dei fiori. Se serpeggia quel senso di inquietudine del sentirsi comunque delle isole, non nel senso di isolati dal mondo ma isole di diversità in un mondo conformato che non si è in grado di capire perché prima di tutto non lo si riesce ad accettare; perché è un mondo pieno di storture, di incomprensibili sopraffazioni, di aberranti contraddizioni, di crisi e perdita dei valori autentici. Molto fa anche la sua New York, che si percepisce in questi solchi: è una metropoli dove l’uomo è solo, perso in una moltitudine di anonimato e sempre in apnea immersi in una giungla urbana; questa è proprio New York, la quale non si ferma mai, ancora meno per ascoltare le inquietudini dei suoi abitanti. Questo senso di inquietudine lo puoi condividere soltanto con chi è figlio dei fiori come te, chi vive nella tua stessa situazione esistenziale. Però non c’è solo la consapevolezza di essere isole in un mondo che non si comprende ma anche la forza di essere una comunità e di vivere insieme il sentimento corale e partecipato della lotta (pacifica, quella dei figli dei fiori è una lotta pacifica, una resistenza passiva che si attua mediante codici di comportamento condivisi) per migliorare le sorti di questo mondo. Ecco spiegato l’elemento “americano” dell’album che traspare soltanto in un ambito iconologico. Quella verso Syd Barrett è un’infatuazione che si rivela esclusivamente in ambito stilistico, più che contenutistico. Sul piano dei contenuti, questo disco è la cartina di tornasole al comune sentire della generazione dei fiori americana. Introspection è un album non omogeneo. I brani non sono disposti secondo un ordine di linearità, ma ognuno ha caratteristiche proprie. Nel campo della cultura lisergica del periodo d’oro di fine sixties questo disco è dal punto di vista musicale una voce fuori dal coro.

Ora l’analisi per ogni singolo brano.

Tune Up
Un intro come se ci trovassimo in procinto di assistere al concetto di musica classica all’auditorium. Serie di archi e fiati a mo’ di accordatura strumenti, prima di iniziare una sinfonia.

Doctor Paul Overture
Pink Floyd barrettiani asciugati da certe enfasi spaziali, sempre immersi in un bagno galvanico di acido ma con obliquità lisergiche prettamente inglesi e barrettiane. Ma non solo, anche reminiscenze di astrattismo pop beatlesiano fra le righe.

People Games Play
Un Syd Barrett guru predicatore che intona un madrigale immerso in una foga di chitarra e batteria dove il garage prende una tinta freak-beat. E se non sapessimo che è americano ci parrebbe proprio di trovarci davanti una banda freak beat inglese. Poi il finale: convulsa danza di spettri a base di urletti folli, fumanti percussioni e chitarrine acide.

Cold Winter Sun Symphony In D Minor
Questa canzone è una delle ballad lisergiche che meglio di altre rivelano l’elemento madrigalesco della psichedelia. Le influenze barrettiane sono ibridate da una coralità canora e musicale che crea un bel dipinto di armonie lisergiche a guisa di canto pastorale di adepti con le mani elevate al cielo.

I Lived Tomorrow Yesterday
Voci alla Beatles, un organo alla Doors per un vivace freak beat di stampo britannico. Brano che esprime una certa solarità appena modulata da fatue riverberazioni.

Ballad Of The Bad Guy
Una vivace lisergic emanation carica di adrenalina. Organo alla Doors per un brano che è un ibrido fra H.P. Lovecraft e Tomorrow. Dai primi prendono le derive doorsiane; dai secondi prendono la psichedelia più grintosa. Uno di quei pezzi destinati a fare scuola nei meandri lisergici degli anni a venire.

Piano Interlude
Un intermezzo pianistico per pianoforte solo quasi chopiniano nella sua malinconica drammaticità romantica.

Introspection
La title track. Profumata ballad lisergica dai soffici toni pastorali che poi prende la deriva verso una leggermente folle euforia barrettiana. Così in un’alternanza di dolci fragranze acide e pulsioni barrettiane.

A Brand New Groove
Carica di maggior elettricità acid-rock e con un caldo organo di sottofondo è una lisergic song devota al Syd Barrett più invasato, ma anche profumata di eterei vapori acidi sospesi nel limbo.

On The Inside There’s A Middle
Con un piatto a guisa di gong e scie di organo metafisiche parte quest’immensa sinfonia barrettiana, un brano che vale da solo l’acquisto del vinile. Accordi di chitarra sospesi in un atmosfera irreale e sibili organistici tra il mistico e il solenne danno un tocco di mistero a questo pezzo che rimanda al Barrett più onirico e sognante. Ma tutto il brano è una sorta di architettura dechirichiana persa in un solare spazio metafisico che svanisce e si confonde in vaporizzazioni lisergiche. Se tra queste note sospese nel limbo e rimonte energiche non ci vedo la prefigurazione del druido Julian Cope (figlio d’arte di Barrett) non sono più io. Un capolavoro di arte psichedelica.

Don’t Hassle Me
Un’altra e obliqua litania lisergica barrettiana fino al midollo. Anche qui si percorrono certe atmosfere alla Julian Cope. Ma quando il cantato prende il volo verso sublime vette di enthusiasmos fra le righe ci vedo anche il futuro Peter Hammill.

Grand Finale
Come dice il titolo il gran finale dell’opera nella forma di una sarabanda di folli dissonanze dove trovano posto anche i latrati di un cane. È un pezzo decisamente free-form che tritura psichedelia barrettiana, chitarrismo acido, scampoli d’organo e perfino riferimenti all’intonarumori di Russolo. Fino a trasformarsi in una folle e slegata stravaganza di suoni in loop, svisate d’organo, melodie di chitarra. Un miscuglio free-form anarcoide e folle che chiude un disco triturando tutto per poi terminare con una marcetta circense.

Marco Fanciulli

 

Introspection: A Faine Jade Recital