PIETRE NASCOSTE DAL SOTTOSUOLO
ERICA POMERANCE
"You Used To Think"
(ESP Disk, 1968)
Più vado avanti e più mi rendo conto che il periodo a cavallo fra gli anni ’60 e gli anni ’70 sia stato il più creativo in assoluto sotto tutti in punti di vista, da quello più innovativo a quello più soggetto alle alterità divergenti. E non voglio tirare in ballo il solito discorso trito e ritrito che senza quel magico periodo non avremmo avuto nulla nei decenni a venire; è soltanto vuota retorica e una critica seria e costruttiva non si può basare sulle minestre riscaldate a base di frasi retoriche già trite e masticate. Quello che mi interessa sottolineare non è l’influenza che quel periodo ebbe presso gli artisti della posterità, concetto troppo scontato e lapalissiano, ma l’aura magica e creativa che aleggiava durante quegli anni. Con la seconda metà degli anni ’60 si sentì il bisogno, in tutte le manifestazioni dell’arte e non solo in musica, di sovvertire regole ormai aduse e stantie, e, conseguentemente, percorrere nuovi sentieri di scoperta e di sperimentazione esattamente in linea al clima controculturale di quegli anni. Chi scrive non ha avuto la possibilità anagrafica di vivere in prima persona quegli anni, essendo nato in un’epoca posteriore; ha potuto carpirne il senso ascoltando e parlando con chi in quell’epoca era giovane, oppure leggendo, ascoltando e guardando documentari e film alla TV ambientati nell’epoca. Ma per quanto uno si possa sforzare non sarà mai la stessa cosa dell’aver vissuto quel periodo dal vero, e non solo ma anche averlo vissuto nei luoghi giusti, quelli che gli hanno dato la possibilità di percepire in pieno quel clima creativo e controculturale (perché non è stata la stessa cosa aver vissuto gli anni ’60 a Londra, San Francisco oppure anche solo a Milano, dell’averli vissuti a Voghera o a Pontedera, senza nulla togliere a questi due luoghi).
Senza uscire dall’ambito musicale mi basta sottolineare in questa sede quanto la musica di quel periodo si fosse spinta oltre l’umano limite, infrangendo qualunque possibile barriera. Il discorso non vale esclusivamente per quei fenomeni oscuri che si persero nelle più nascoste pieghe del mercato: esso coinvolge anche grossi calibri della musica come ad esempio i Beatles. Basta solo ascoltare la beatlesiana Tomorrow Never Knows da Revolver per accorgersi di trovarsi davanti a un pezzo alieno e fuori dalle righe, uno di quei brani che ci si aspetterebbe provenire da qualche illuminato artista pazzoide (in senso buono) ed outsider, e non invece dalla compagine ai tempi più conosciuta e celebrata. Ma quella è stata anche l’epoca delle prime fanzine musicali, le riviste che circolavano negli ambienti underground, scritte e concepite artigianalmente e ciclostilate alla bell’e meglio; segnale inequivocabile di una circuitazione transnazionale di fenomeni controculturali e di nuove idee musicali e creative. Inoltre è sempre in quel periodo che nacquero le prime etichette indipendenti nel senso moderno del concetto. Una di queste etichette, dalle vedute più avanguardiste e divergenti, è stata la ESP Disk Records di Bernard Stollmann. Due parole sulla ESP. È stata una gloriosa etichetta indipendente, una delle prime indie label della storia, creata da un personaggio singolare come Bernard Stollman, autentico outsider americano. L’etichetta ESP era specializzata nella pubblicazione di album che spaziavano dal free-jazz al rock underground, ma il minimo comune denominatore è che si trattavano tutti di dischi divergenti e outsider rispetto agli schemi consueti, soprattutto perché prima di tutto erano outsider gli artisti che li producevano. Nomi grossi passarono dalla ESP: Albert Ayler, Giuseppi Logan, Pharoah Sanders, Sun Ra, Erica Pomerance, Pearls Before Swine, Holy Modal Rounders, Godz e appunto Fugs (purtroppo uscì per ESP anche l’unico – tra l’altro scadente – disco del folle omicida Charles Manson). Dalla ESP passò il gotha dell’avanguardia musicale newyorkese. Qui mi interessa parlare di uno dei personaggi più singolari e fuori dalle righe della scuderia ESP: Erica Pomerance.
Se esiste un personaggio che può essere considerato una punta di diamante della ESP è proprio Erica Pomerance. Artista visionaria di origini canadesi ma figlia di immigrati ebrei dell’Europa orientale che nel 1968 pubblicò il suo primo e unico album musicale dal titolo You Used To Think, oggetto di culto per collezionisti che non venne mai ristampato in LP. La ricerca di questo vinile non è stata per nulla facile. Oggi ad andare su Discogs e e-Bay se ne trovano poche copie di cui nessuna in ottime condizioni (per ottime si intende una copia Mint o al massimo Near Mint) e tutte a prezzi esorbitanti. Quando non esisteva il commercio on line fu grazie ad un colpo di fortuna che riuscii a portarmi a casa il vinile: successe in quel di Novegro, dove trovai una copia in ottime condizioni presso un espositore tedesco che acquistai al prezzo di (allora) 80.000 lire. La Pomerance non è solo musicista: è anche poetessa, regista di documentari e attivista per i diritti umani, soprattutto in campo umanitario e nei confronti dei popoli diseredati nel mondo. You Used To Think non è soltanto uno dei dischi più oltre e avanti di tutti i tempi, ma è prima di tutto il parto di una mente rivoluzionaria. Rivoluzione è il primo concetto da focalizzare per descrivere un album come questo: la rivoluzione che parte dal profondo dell’anima e permea la personalità di un’artista disgustata dal disincanto verso un mondo alla rovescia che non sente suo e verso il quale avverte solo il bisogno di sovvertirlo: detto spirito rivoluzionario fuoriesce come un torrente in piena per esprimersi in un’arte musicale rivoluzionaria. È l’atto rivoluzionario di sovvertire le regole del folk – base musicale della Pomerance – per destrutturarlo e ricomporlo in una nuova e deviata veste avanguardistica.
In definitiva la Pomerance parte da un discorso folk di base e crea una sua personale versione di acid-folk portata alle estreme conseguenze. I mezzi per pervenire al compimento di questo progetto rivoluzionario sono l’uso di strumentazioni poco convenzionali del panorama folk come flauti, sax free jazz, bonghi, pianoforte mutuato dalla “contemporanea”, strumenti indiani come il sitar e piccole percussioni. In questo modo la Pomerance crea una mistura acid-folk che si pone al centro fra improvvisazione jazzistica (i modelli saranno più Thelonious Monk, Charles Mingus e il Miles Davis di Sketches To Spain e non tanto il free di Ornette Coleman), il raga indianeggiante e la contemporanea da camera. Sul piano iconologico questo disco è un visionario e allucinato flusso di coscienza che fa strame di qualsiasi positivismo razionalista in favore di un surrealismo lisergico dominato dal sogno. Lo scopo ultimo è quello di tendere a uno spiritualismo senza tempo, un forma di animismo che prende le distanze da ogni dogmatismo religioso istituzionalizzato e che si ispira allo sciamanesimo dei nativi americani.
Nel raggiungimento di questa concezione spirituale la Pomerance mette al centro il suo ruolo di donna, nel senso di ribadire l’importanza della forza femminile, per nulla inferiore ma complementare a quella maschile, secondo la visione tantrica, come medium particolarmente sensibile per attuare quella ritualità sacra di stampo paganeggiante che per lei è la contemplazione del fine ultimo della creazione: il dominio dello spirito. Visione femminista? In senso molto lato perché per prima cosa, come ho ribadito sopra, viene la concezione rivoluzionaria: essa passa attraverso la sovversione delle regole musicali spingendo al massimo il pedale dell’acid-folk per pervenire ad un sovvertimento dell’ordine precostituito in senso politico ma soprattutto ad un rifiuto dei dogmi religiosi in favore di una spiritualità autentica raggiunta mediante la valorizzazione della forza femminile. Il folk psichedelico si trasforma in flusso di coscienza nel senso surreale del sogno per tendere alla spiritualità pura.
Ora l’analisi per ogni singolo brano.
You Used To Think. Il disco inizia con la title-track, uno scarno blues acustico dominato dalla voce limpida ma allo stesso tempo stralunata della Pomerance. Tra le righe questo blues assume quei velati toni lisergici del raga psichedelico acustico.
The Slippering Morning. Un estatico e trasognato trip lisergico che si svolge in assoluta libertà mutuato da uno schema impro-jazzistico (echi del grande Thelonious Monk fra le righe) e dominato da un cantato cantilenante in piena simbiosi con gli arrangiamenti acustici.
We Came Via. Dopo i primi due brani improntati a un acid-folk catartico ecco il primo dei pezzi sperimentali del disco. Questo brano è una sorta di delirante danza sullo stile del raga lisergico con il cantato della Pomerance avulso dalla realtà circostante e in preda ad un delirante trip che dialoga con un flauto bucolico e su note minimaliste di piano. Sette minuti di pura follia acid-folk deviante al massimo che si dispiegano in un orgasmo catalettico, come se ci trovassimo davanti ad una sciamana che alza una preghiera dal folto di una selva mentre intorno si levano danze apotropaiche di folletto in preda a visioni da LSD. Fondamentale l’apporto del flauto a dare maggior patina di ancestralità all’insieme. Mentre il pianoforte con le sue note cameristiche ne aumenta la visione prospettica verso ambiti di mistero. Da ultimo le percussioni che sostengono questo raga folle e stralunato.
The French Revolution. A calmierare l’estasi lisergica del raga precedente ci pensa questa sognante ballad nella veste di un acid folk cantautorale. La voce della Pomerance è anche qui come rapita da un’aura paganeggiante e spirituale e a volte assume, fra soffuse note di flauto e chitarra, un tono più energico. Pare di sentire una Joni Mitchell ancora più lisergica e trasognata.
Julius. Una Joni Mitchell che anche in questo brano si fa ancora più paranoica e immersa in un bagno galvanico acid folk. Il brano è acustico con divagazioni verso il raga indianeggiante ed è dominato dal cantato della Pomerance, totalmente libero e perso nell’etere senza tempo, proprio come una sciamana. Stupende le parti di chitarra.
Burn Baby Burn. Altro folle raga acustico con tanto di sitar a dare un tocco di India. Il brano è dominato da una certa atonalità folk frutto dello scompaginamento delle regole dello stesso e fautore di uno straniamento lisergico fuori dal comune. La struttura armonica è forgiata sullo schema dell’improvvisazione jazzistica ma la melodia è comunque folkeggiante, per quanto dissonante. Estetica free e surrealismo acid folk in contemporanea.
Koanosphere. Il brano più oltre dell’album, così oltre che già ci vedo la prefigurazione del Tim Buckley viaggiatore astrale di Starsailor. Qui il concetto di raga lisergico viene spinto al massimo fino a toccare vette subliminali di comicità astrale; potremmo definire un pezzo simile come la sublimazione dell’acid-folk verso la musica delle sfere celesti. Il pieno raggiungimento spirituale fra uomo, natura e cosmo nella voce di una sciamana che ormai è una sacerdotessa delle selve che ha staccato i contatti col mondo reale per stabilire una connessione col divino. Ben accompagnata dagli arrangiamenti acustici che sono all’insegna della vaporosità straniante psichedelica in caduta libera. Mai come in questo pezzo la Pomerance è in piena catarsi estatica, e la musica è il superamento stesso del concetto di raga acid folk. Qui si toccano vette cosmiche, l’estasi spirituale è al suo culmine.
Anything Goes. Una sghemba e deviante litania a cappella con la Pomerance accompagnata dal canto di improbabili prefiche apre ad una folle e paganeggiante danza pari a quelle di uno sciamano nativo americano, con la voce che si abbandona a gorgheggi apotropaici. Piccole percussioni tengono il ritmo mentre compaiono anche voci maschili in questa sorta di danza apotropaica da invasati stregoni da clinica psichiatrica. Poi sussurri, frasi parlate in un silenzio quasi cageano, per poi sfumare il tutto nel mistero di un bosco ove avvengono riti animisti.
To Leonard From the Hospital. Il brano conclusivo è un altro raga lisergico e indianeggiante ove la Pomerance appare più che mai rapita da quest’estasi mistica che domina tutto il disco. La splendida conclusione di un album rivoluzionario e alieno come pochi è questo intenso madrigale acid folk dominato da un cantato vibrante di energia primordiale cosmica con la veste di un trip indianeggiante.
Marco Fanciulli