PIETRE NASCOSTE DAL SOTTOSUOLO
FRANCESCO CURRÀ
"Rapsodia Meccanica"
(Ultima Spiaggia Records, 1976)
Francesco Currà è uno di quegli artisti tanto geniali quanto incompresi e relegati in un limbo per pochi cultori e appassionati. Lui non nasce come musicista. Solo in seguito scoprirà di avere un originale quanto insolito talento artistico. Calabrese, originario di Lamezia Terme, si trasferisce a Genova e trova lavoro come operaio all’Ansaldo. La sua storia è quella di tanti giovani originari del nostro meridione che emigrarono al nord negli anni ’60 per un futuro migliore. Currà è un personaggio sui generis che, nonostante provenisse dalla fabbrica, divenne una persona di elevata cultura umanistica e filosofica grazie alle sue letture e alla sua preparazione da autodidatta, dimostrando quanto la crescita e la formazione culturale di una persona possono prescindere da una formazione scolastica e accademica.
E non aveva nemmeno una formazione musicale accademica Francesco Currà; sapeva suonare qualche strumento ma a livelli veramente amatoriali e con scarsa preparazione. Il suo talento nelle doti compositive è innato. Una personalità sensibile la sua. È stato anche poeta e scrittore oltre che musicista. Pienamente calato nel clima politico di quegli anni e sensibile alla causa dei suoi colleghi operai che protestavano contro i licenziamenti, Francesco Currà seppe andare oltre il suo tempo e prefigurare il senso di alienazione che di lì a una decina scarsa di anni sarebbe scaturito nell’ambito del dissidio fra uomo e macchina. Egli con fare profetico aveva già compreso lo smarrimento del lavoratore e dell’essere umano tutto all’alba del neoliberismo economico. La sua condizione di operaio di fabbrica, quindi di persona che ha potuto vedere dall’interno le dinamiche e le problematiche del lavoro in fabbrica e del rapporto fra il singolo e i ritmi di produzione, sviluppano in lui una sensibilità tale da guardare le cose con una prospettiva più avanti di altri proprio da chi l’esperienza la vive dal di dentro.
Soprattutto Francesco Currà sottolinea quanto la produzione industriale si stia orientando sempre di più verso l’automazione e si sta instaurando quel sistema di neoliberismo economico che porterà alle sue nefaste conseguenze. Rapsodia Meccanica traduce in arte questi concetti ed è un lavoro emanazione diretta del vissuto di operaio in fabbrica. Vissuto che in questo lavoro traspare fino al midollo. Lo possiamo definire sommariamente un lavoro di cantautorato proto-industrial. Se invece ne diamo una descrizione più specifica questo è un atipico album di folk mediterraneo immerso in una dimensione che per costrutto è differente da quello che può essere il piccolo mondo arcaico del folk di casa nostra. È un folk che entra in un rapporto simbiotico con l’attualità degli anni ’70 delle lotte operaie e dell’incubo degli anni di piombo nei quali si assiste al disincanto e alla delusione nei confronti degli ideali rivoluzionari di cambiamento sociale divulgati e propagandati dal partito comunista italiano allora in piena fase di appoggio elettorale e dai capi della rivoluzione. Questo è un disco proiettato in un futuro che di lì a breve diventerà tristemente: l’era del riflusso alle porte e l’instaurazione del regime neoliberista, con la progressiva rimozione della figura dell’operaio classico salariato sostituito dall’automazione meccanica. Rapsodia Meccanica è un disco dal contenuto molto forte, una scarica al vetriolo scagliata come un macigno sparato da una catapulta contro una vetrina. È un lavoro che potrei definire estremo, per la modalità espressiva e per la portata dei messaggi contenuti, in controtendenza allo spirito del periodo.
Le sue liriche sono un attacco che non risparmia nessuno: la frustrazione del lavoratore salariato nell’era dominata dalle macchine, il disincanto, la superficialità, il disinteresse, la povertà umana degli indifferenti, il disgusto verso una classe dirigente sempre più spietata e famelica, la delusione verso la cosiddetta intellighenzia intellettuale di sinistra che è ormai un’entità astratta dal contesto sociale e incapace di fornire risposte al proletariato che vorrebbe tutelare e rappresentare. È un disco i cui rumori di fabbrica di sottofondo riflettono le tensioni politiche che la classe operaia stava vivendo in quegli anni nelle fabbriche e per le vie cittadine e lo fanno comunicando all’ascoltatore il senso di angoscia perenne di quelle frange operaie con la spada di Damocle del licenziamento e della perdita del lavoro sospesa sopra le loro teste. Per esprimere quest’angoscia viene usata l’arma della poesia. Ed ecco che il termine “rapsodia” calza a pennello. Rapsodia è una parola di origine greca per definire il componimento dei rapsodi, i poeti greci che recitavano e/o cantavano le gesta epiche. Omero per intenderci. Questo lavoro è il canto di un rapsodo dell’era moderna che porta seco le sue origini calabresi, quindi il lontano retaggio delle genti greche (la Calabria è figlia dell’antica Grecia classica come della Grecia bizantina). Un rapsodo di estrazione greca capace di trasformarsi in un atipico Woody Guthrie della protesta operaia italiana. Venendo all’aspetto strettamente musicale questo lavoro si può definire una versione concreta e industriale della Fabbrica Illuminata di Luigi Nono, un’opera per mezzosoprano e nastro magnetico dedicata proprio agli operai di Genova, quelli dell’Italsider anziché l’Ansaldo. Della composizione di Nono Rapsodia Meccanica ha ripreso la struttura: anche la Fabbrica Illuminata è costituita dalla riproposizione dei rumori all’interno di una grande fabbrica sintetizzati dal nastro magnetico. E il canto per mezzosoprano dona l’elemento lirico a questo sottofondo. Francesco Currà ne trascrive la struttura sostituendo la voce lirica femminile con le sue poesie e riproponendo in modo più realistico e concreto i rumori di fabbrica; rumorismo che prende anche l’aspetto di uno spettrale sibilo, metafora sonora dell’angoscia esistenziale dell’autore. Altri riferimenti sono la follia visionaria di Juri Camisasca, la prefigurazione rumoristica degli Einstürzende Neubauten e anche quella del timbro vocale di Giovanni Lindo Feretti, pur con inflessioni calabresi. Tutto l’album si svolge senza soluzione di continuità e i brani sono legati da questo sottofondo rumoristico come se si trattasse di un’opera unica, organica ed omogenea. Da notare che essa è strutturata in modo tale che le parole si elevano.
Ora l’analisi per ogni singolo brano.
16 giugno. Fin da questo primo brano si può notare il riferimento al lirismo della Fabbrica Illuminata di Luigi Nono. Riferimento contemporaneo che viene ritrattato nella forma di sonorità proto-industrial concrete che fungono da vero e proprio sottofondo musicale. È un tappeto rumoristico capace di fungere da tappeto sonoro, diretta ispirazione dai rumori di fabbrica cui l’artista è abituato, e su di esso un cantato recitante a guisa di folksinger che si fa rapsodo dell’universo delle fabbriche e della produzione industriale. Poi entra in ballo un loop elettronico a dare delle inquietanti linee dark. Il testo è un’alienata invocazione di un lavoratore che si ritrova in una condizione di spersonalizzazione dalla quale l’unico modo di evadere è morire. E nemmeno i proclami dei compagni e dei capi delle lotte operaie forniscono una risposta adeguata al suo smarrimento. Il brano termina con l’esecuzione di una fanfara che ricorda vanamente il nostro inno nazionale: invettiva sarcastica verso i padroni del vapore imbevuto solo di falsa retorica patriottica.
Non Mi Parlare di Rivoluzione. Un’eco di brusii come se ci trovassimo dentro la grande fabbrica fa da loop di sottofondo mentre la voce solista, con l’atteggiamento di un militante di lotta operaia che intona un inno comunista, canta una sarcastica filastrocca sul fallimento degli ideali rivoluzionari. Praticamente è un canto a cappella, coadiuvato soltanto da tocchi percussivi industrial minimali che gli danno un ritmo.
Incubo. Un brano folle e visionario che riduce la visionarietà di Juri Camisasca ad un rarefatto quadretto minimal-industrial. Il tessuto di sottofondo anche qui è ispirato al brusio che si ode all’interno di un grande capannone industriale; però viene trattato in modo tale che sembra il sibilo di un vento gelido: espediente sonoro per dare forma e risalto ad un senso di desolata inquietudine che nasce dalla solitudine del singolo. Il tema trattato con una dose di follia visionaria è quello di un amplesso sessuale con una donna dominatrice.
Quanto Dura Il Mio Minuto? Un collage sonoro che all’inizio rivela decisamente un’altra atmosfera e ci si porta dalle parti di una giga pastorale di stampo baroccheggiante e dai toni fiabeschi. Quindi su clangori metallici industrial la voce recitante che con un senso di deviata follia intona una visionaria poesia, mentre suoni di sirene di fabbrica e colpi metallici portano l’immaginario dentro l’ambiente vasto della grande fabbrica: chiara emanazione artistica di chi è assuefatto a questi ambienti. Proviamo ad immaginare uno Juri Camisasca che arriva a flirtare con gli Einsturzende Neubauten col timbro vocale di un Giovanni Lindo Ferretti dall’accento calabrese; un flirt che subisce un processo di rarefazione minimalista che trasporta all’interno di un autentico ambiente industriale, soluzione concreta nel vero senso della parola. Man mano che si procede il cantato si fa più lontanante, quasi quello di un predicatore folle la cui eco si perde nelle spire di un vento: identificazione fra fabbrica, produzione e smarrimento alienato totale. Il testo è visionario al massimo, in pieno stile Camisasca. È il grido disperato di chi non è più in grado di reggere questi ritmi disumani così come non riesce più a trovare un appiglio, una sponda nelle vuote parole della retorica dei capi comunisti (“la mia schiena non è più disposta a subire/itinerari estetici e turismi ideologici”) e tale grido assume il volto di una preghiera disperata, un ultimo grido da parte di chi non vede più la luce di una speranza in fondo al tunnel.
Preferirei Piuttosto. Un muezzin che recita la sua visionaria omelia in un silenzio spettrale di fabbrica. Una via di mezzo fra un muezzin musulmano e un militante leninista della classe operaia. Un testo caustico intriso di rabbia visionaria. Di chi preferisce essere un pazzo emarginato dalla società o un assenteista o un eterno infelice piuttosto che assecondare il ruolo di un operaio e di un uomo secondo il modello della retorica sindacale.
Tra Cespugli Di Ginestre. Breve filastrocca demenzial-dadaista dal testo allucinato e fuori dagli schemi come pochi. Eseguita con un timbro vocale volutamente ubriaco e decente e impostata su un ritmo di scarna percussione metallica.
La Rovina Del Porto È Il Marinaio. Questo brano è introdotto da un preludio a base di chitarra folk acustica, è un’ode apotropaica contro gli sfruttatori (“vai via stregone/da sempre vi abbeverate/al sangue dei lavoratori”) e una presa di coscienza che la rovina dell’industria è il lavoratore stesso ma non perché è lui quello sbagliato ma è la vittima (“la rovina del porto è il marinaio/perché ci lavora lui/…/io imbratto di sangue gli utensili/e i pochi spazi fra le macchine”). Il sottofondo stavolta assume il volto sonoro di un grido di disperazione che si amplifica in abisso.
Hanno Sputato Sui Vetri. Un’altra scarna e scheletrica filastrocca infantil-demenziale che con un ritmo di battiti a guisa di handclapping recita una caustica e cruda ironia contro i padroni (“hanno sputato sui vetri dell’auto della direzione/ho pulito gli scaracchi con le mani nude”). I padrini responsabili delle morti bianche ma di fronte alla morte nemmeno loro riusciranno a sottrarsi.
L’Alunno Dell’Ultimo Banco. C’è un aumento della tensione drammatica con il sottofondo che si fa più minaccioso e pervasivo. È la rivendicazione di un orgoglio di essere ribellione e non conformati. E soprattutto di non essersi venduti. L’orgoglio di essere l’ultimo della classe, il Franti del libro Cuore non allineato.
La Massa Della Miseria. Uno dei momenti più drammatici dell’album. Questa volta il rapsodo non recita ma urla. Un urlo disperato urbi et orbi sullo spettro della miseria delle masse che sta aumentando sempre di più. E non c’è barlume di speranza. Nemmeno il salario che è una “garrota” (un antico strumento di esecuzione capitale di origine spagnola) che se non ti fa morire di fame ti condanna ad un martirio di precarietà (“se non è morte è martirio”). Il rumorismo di sottofondo accompagna questo grido di disperazione con sinistri ululati di angoscia. Poi il brano muta in una leggiadra melodia barocca classicheggiante, come il vagheggiamento agognato di un appiglio di serenità.
Tavola Ansaldina. È l’episodio più folk del disco oltre che uno dei più elevati dal punto di vista lirico. Sempre con l’immancabile sottofondo di fabbrica un canto da epos omerico si innalza, di una mediterraneità ancestrale con tanto di chitarra acustica a definire dolci fraseggi. Il testo si divide in tre parti: la prima parte è uno stornello in dialetto preso da una canzone contadina calabrese; la seconda parte parla di un sogno visionario, quello di un morto sul lavoro che parla in sogno e dichiara che la sua conduzione di defunto non è stata voluta da lui ma è stata stabilita dal suo datore di lavoro. La strofa termina con l’amara consapevolezza che ormai nessuno è più solidale col povero lavoratore ma insieme tramano contro di lui, che siano fascisti o comunisti, in pieno stile politically uncorrect per quei tempi (“oh come è verità che il pescatore/e il verme rosso o nero non importa/tramano insieme per fregare il pesce”). La terza parte racconta l’intervento da parte del protagonista per difendere un giovane neoassunto dalla prepotenza di tre operai anziani e utilizza l’episodio come pretesto per denunciare che i compagni operai comunisti non sono più tali (“guardali bene in faccia i compagnoni/non guardie rosse ma guardiani rossi”).
Son Le Puttane Le Donne Migliori. Nella forma di un canto simil-industrial-pastorale il brano che chiude l’album è un’amaro e caustico sentimento di delusione e di tristezza di un operaio che non ha mai potuto conoscere una sincera esperienza amorosa con una donna. Al punto da arrivare a dire che le donne uniche che valgono sono le puttane, le sole con cui condividere il frutto amoroso da tutte le altre donne negato. Egli desidera di morire di sifilide, non quella figurata della morte metaforica nella fabbrica ma quella vera che può nascere solo da una relazione amorosa, un dolce frutto che il nostro uomo non ha mai potuto assaggiare.
Marco Fanciulli