PIETRE NASCOSTE DAL SOTTOSUOLO:
MOTOR TOTEMIST GUILD
"Shapuno Zoo"
(Vinyl Records, 1988)
Non si trovano su Spotify, mentre su Bandcamp va già meglio perché almeno Shapuno Zoo e City Of Mirrors compaiono. Nessuna rivista di settore italiana, che sia cartacea o online, li ha mai trattati. Ricordo soltanto un articolo su un vecchissimo Blow Up e poi basta. A fare un giro su Discogs o e-Bay si rintracciano poche copie quasi mai mint (ovvero in condizioni nuove, intonse) vendute a peso tanto i prezzi sono irrisori. I Motor Totemist Guild, guidati da James Grigsby, sono un’oscurissima band dimenticata in quell’immenso calderone underground che ci fu negli anni ’80. Eppure sono stati fra le band più atipiche e laterali mai concepite in quel decennio. Le poche notizie che ho raccolto narrano di un progetto che si situa a metà fra uno stravagante art-rock ed una continuazione del Rock In Opposition. L’etichetta art rock è quella che più gli si addice perché è fuori di metafora che ci troviamo innanzi a una formazione avant. Avant nelle tessiture sonore legate ad un impianto musicale cameristico la cui seriosità è alleviata da una vena di ironica follia.
La band ha origini californiane ed è un collettivo di musicisti legati all’area sperimentale ispirata ai fermenti della San Francisco avanguardistica di fine anni ’70: fermenti legati alla Ralph Records dei Residents. Dai Residents assimilano infatti una certa impostazione dadaista nel costruire le loro armonie, con quel tipico istrionismo satirico di stampo dada e quel bizzarro senso del non-sense teatrale, quale parodia del musical in chiave “politically uncorrect”.
Altri elementi che hanno costruito il sound della band sono l’attitudine “freak” di Frank Zappa, dal quale hanno attinto l’atteggiamento di dissacrante mattatore dei costumi. Poi un altro apporto è la musica etnica di differenti culture che loro metabolizzano in questo stravagante melting pot musicale. Quindi l’approccio verso un’improvvisazione free-jazz di artisti come Albert Ayler, che viene comunque scremato del suo afflato misticheggiante. E infine il già citato approccio cameristico. La loro si può definire una musica da camera dominata da un istrionico non-sense di follia. Abili soluzioni contrappuntistiche immerse in un bagno galvanico di freakeria folle e stravagante, dada per la maggior parte ma anche con una punta di surrealismo. Potremmo definirli dei Residents della musica da camera oppure un ibrido cameristico fra Albert Ayler, gli Henry Cow e Zappa. L’utilizzo degli strumenti è preso sia dalla classica che dal jazz (contrabbasso, pianoforte, clarinetto, sassofono, batteria). Nessuna strumentazione legata a un discorso prettamente rock. Questo fa pendere la bilancia verso il cosiddetto Rock In Opposition, abbreviato RIO.
Il RIO nasce nella seconda metà degli anni ’70 in un contesto politico particolarmente caldo dominato dai movimenti anarchici di sinistra. Ci fu un manipolo di musicisti – i cui primi pionieri risiedono nel Canterbury Sound e rispondono al nome di Matching Mole ed Henry Cow – che fece suo l’umore anarchico di quegli anni sviluppando una musica antagonista che creava un trait d’union fra la sperimentazione e l’impegno politico. Ma un antagonismo che era radicale e si poneva in antitesi anche con un tipo di musica associata all’immaginario rock, una rivoluzione anche nei confronti dei canoni rock. Quindi non solo rifiuto delle mode dell’allora imperante disco music ma anche ricusa totale della strumentazione rock classica quale chitarra elettrica e basso e utilizzo di strumenti e di tecniche presi dalla musica classica da camera. Il RIO è stato un movimento che nello spirito ribellistico è rock fino al midollo, ma in termini musicali è legato alla creatività espansa nel segnon dell’improvvisazione jazzistica e della classica da camera. Ma la classica cui si riferisce il RIO è quella contemporanea novecentesca, non la classica dei secoli passati, le cui influenze risultano più consone ad un’avanguardia musicale che vuole tradurre in musica la protesta politica. L’errore da non fare è quello di non considerare il RIO come una deriva intellettualistica del rock. Esso mira ad un cataclisma musicale che mina certezze e abolisce circolarità schematiche. La creatività è al centro del RIO e una vera creatività è libera, senza essere confinata in schemi che possono essere gli steccati del rock convenzionale come le velleità intellettualistiche. Creatività va intesa come massima libertà di espressione artistica che nel RIO è combinata all’attivismo politico e alla ribellione alle regole del mercato discografico.
Ed ecco che il RIO è stato uno dei più devastanti tsunami del secolo appena trascorso, perché ha operato un’abolizione decisiva del concetto di conformismo. Quel conformismo demonizzato da Michel Foucault. Foucault definiva il conformismo una vera e propria malattia sociale dalla quale l’uomo deve guarire per ritrovare la sua autentica essenza. Se la società è malata di conformismo, l’unica medicina è un’asportazione chirurgica delle logiche che stanno alla base di questo. E cioè portare avanti una rivoluzione che rovescia uno dei fondamenti cui è basata la società occidentale da secoli: essere passati da un sistems politico, di pensiero e merceologico confortante ad un altro.
Il RIO applica la teoria di Foucault ponendosi come movimento musicale nemico del conformismo: non aspira ad un target di pensiero, né tantomeno ad un target musicale. Il rock convenzionale, tutto il rock, ivi compreso quello più sovversivo e antagonista, crea un target conformante. Allo stesso modo anche gli intellettualismi e i virtuosismi (il virtuosismo è un altro nemico del RIO) sono anch’essi forieri di target conformistici. Entrambi creano una popolazione tipizzata i cui membri sono simili fra loro. Il sistema capitalistico per la sua sopravvivenza ha bisogno di creare conformismo fra masse di cittadini degenerate a consumatori, proprio per poterli asservire meglio e per mutare sempre di più il loro status di cittadino a quello di consumatore. Il progetto RIO è la guarigione dalla malattia del conformismo mediante una creatività senza confini. È un’operazione chirurgica che consiste in una resezione del male alla base. Ed è stato l’unico progetto che non ha creato fenotipi: è diventato popolare sia presso le frange rockettare più alternative sia fra i seguaci della sperimentazione più ricercata.
I Motor Totemist Guild perpetuano il RIO negli anni ’80 e ne assimilano sia le componenti stilistiche sia le basi filosofiche legate all’impegno politico e alla filosofia di Foucault. Sono una compagine che ha scelto di aderire al principio anticonformista e lo fanno con una musica che solo per una classificazione generica possiamo definire art rock. La tecnica utilizzata è quella di un collage sonoro mettendo a frutto le loro conoscenze musicali: lo studio della musica polifonica rinascimentale, dell’elettronica, della classica contemporanea, soprattutto le scuola dodecafonica di Anton Webern; poi il jazz d’avanguardia e l’etnica di diversi paesi, soprattutto asiatici. I Motor Totemist Guild creano una loro strada al RIO, una via che dirotta verso un versante ironico e sarcastico pregno di freakerie dadaiste.
Tra gli album ho scelto Shapuno Zoo in base a un criterio puramente logistico: è l’unico che ho trovato per intero su una piattaforma streaming, Bandcamp, perché nemmeno su You tube c’è il disco integrale. Non per una preferenza stilistica perché i dischi della band sono tutti di pari livello. Il disco è uscito nel 1988 ed ha confermato il trend di ricerca della band con un approccio più perfezionato nel mescolare abilmente suggestioni alla Residents, RIO, impro jazzistica e scampoli di etnica, musica da camera. Rispetto al suono più grezzo dei primi album qui c’è una maggiore cura formale che ha permesso alla band di raggiungere un pubblico un po’ più vasto.
Ora l’analisi per ogni singolo brano.
Set Of Crayons
Una salmodia orientaleggiante evidente, una carovana di dromedari nella steppa prosegue con cadenza costante mentre la voce teatrale della cantante e flautista Emily Hay dona fini tinte di astratto misticismo. Poi si prende la piega verso un orientamento cameristico prettamente europeo che crea un’affascinante sintesi fra etnica orientale e ‘900 europeo. Ma guardando sotto il profilo di una profondità di campo più ampia l’insieme comunica una positiva ipnosi lisergica. Verso la fine montano le percussioni e l’andamento calmo e ondulato di questa colonna di dromedari assume le sembianze della marcia militaresca.
Do The Crawl
Si cambia registro per prendere la via di un trasognato ibrido fra un mistico jazz alla John Coltrane immerso in vapori RIO ed un simposio cameristico. Ma il brano è ricco di colpi di scena che prendono la forma di inquietanti pause di tenebra fra saltellanti freakerie RIO, con un cantato femminile che ricorda Dagmar Krause e gli Slapp Happy. Tra pause e sussulti di caratteristico free music il pezzo svela le doti vocali della cantante e quelle contrappuntistiche dei musicisti in gioco. Ma il brano è anche pervaso da un certo cangiantismo umorale che si esplica mediante singolari fughe cromatiche.
Familiar Philippic
Il brano dove l’elemento contrappuntistico risulta più articolato. Ma anche quello che lascia intravedere le stravaganze bizzarrie residentsiane. È un susseguirsi di contrappunti di flauto e violoncello in stile cameristico e contemporaneo novecentesco per tutta la sua durata. Ogni tanto interrotti da schizzi vocali che non seguono l’andamento strumentale. Quindi si articola in schizzi sonori più complessi con libere divagazioni impro e ritmiche spezzate. Tra Stravinsky, musica dodecafonica, Residents tutto il brano rivela un impianto cameristico fatto di pause, divagazioni sognanti e disinteressati stop an go contrappuntistici.
Indian Bingo
È il brano più vicino ai Residents, che vengono dilavati in una lenta e sghemba sarabanda orientaleggiante. Mentre si elevano un doppio recitato, maschile e femminile, molto cinematografico. Nel complesso è un bizzarro esperimento residentsiano che mira ad agganciarsi a certe derive alla Slapp Happy e vuole parodiare un circo ambulante circense i cui attori sono personaggi affetti da tare mentali.
Imperfections
L’ideale convergenza fra Slapp Happy, Henry Cow, Residents e improvvisazione jazzistica condensata in una bella estetica di musica da camera che sprigiona un forte senso della drammaticità teatrale. Come assistere ad una pièce del teatro dell’assurdo. Come vedere in codesta destrutturazione del suono la rappresentazione icastica del dramma esistenziale post moderno tra una pausa e l’altra. Tutti gli strumenti partecipano, però c’è una separazione cromatica quasi puntillistica, qui come in altri episodi del disco, che rende definibile ogni singolo strumento. Il drama del recitato instaura un dialogo surreale con gli strumenti. Concludendo questo è un brano teatrale fino al midollo che pare volesse celebrare una danza sulle macerie del mondo post moderno, ma non in direzione patafisica alla Pere Ubu, bensì in una astrattista-surrealista.
Prisms Of Ribbon
Il pezzo forte del disco sono questo quasi 12 minuti di puro delirio improvvisativo e cameristico. È qui che la band dà sfoggio a tutte le sue conoscenze musicali. Costipazioni dadaiste residentsiane che incontrano contrappunti dodecafonici e rivedono alla base il concetto di RIO. Ma il culmine del brano è l’assolo per sassofono, una delle più folli e invasate scariche di impro jazz che porta John Coltrane e Albert Ayler davanti alla soglia di una clinica psichiatrica. Segue un’altra stralunata performance di violino, di quelle da brivido, poi una pioggia di piccole percussioni lignee ci conduce in una dimensione astratta tra freak e contemporanea, quasi al confine di certo minimalismo percussivo. Quindi il flauto a dipingere una fanciullesca melodia da surreale ambiente bucolico che guida con le sue leggeri volute a guisa di onomatopeici canti d’uccello verso spire celesti adagiate su un silenzio teatrale. Il finale è a base di un’espansione liberatoria di impro jazz e musica da camera che si lascia andare a repentini e agitati colpi si scena. Edgar Varese dietro le quinte.
Diamonds For Fishhooks
Il brano che conclude il disco è molto enigmatico. Sullo sfondo di un muro di elettronica quasi cosmica si rilasciano nell’aria frammenti di improvvisazioni vicine a certa musica concreta, come una sorta di ambient popolata da presenze da un mondo lontano. Oppure una rielaborazione di certa musica industrial calata in una struttura più legata alla contemporanea. Fino alla tempesta rumorista finale che si interrompe di botto. È un finale di disco che fa trapelare apocalittiche inquietudini.
Marco Fanciulli