WIRE
“Mind Hive”
(Pink Flag, 2020)
Il 2020 si apre con un caso di longevità artistica lapalissiano quanto uno che ha concluso il 2019, di cui abbiamo trattato qui su Frastuoni. Lì si sguazzava nel classicismo mod-rock di estrazione sixties del nuovo lavoro in studio degli Who; qui, in un ambito rock completamente diverso sorto nei tardi anni ’70, Mind Hive dei britannici Wire inaugura un nuovo decennio ribadendo e sublimando tutti i canoni musicali del post-punk che hanno reso famosa la band presso i cultori di questo genere. Debuttanti nel 1977 con Pink Flag – così avrebbero chiamato anche la loro etichetta personale – con un grande disco punk (uno dei più sorprendenti di quell’anno) gli Wire sono uno di quei gruppi che avrebbero letteralmente inventato il post-punk già a partire dal secondo lavoro in studio del 1978, Chairs Missing, intriso a sorpresa nelle sue oblique ballate del songwriting di Syd Barrett.
Prendevano così già le distanze dalle coordinate più ortodosse dell’estetica musicale punk: ne avrebbero conservato però sempre i connotati più autentici, l’urgenza, l’immediatezza, l’assenza di soli strumentali, aggiungendo una scrittura densa di scarno minimalismo, tesa ed ipnotica. Un po’ la stessa sbalorditiva repentina mutazione espressiva che segnò il passaggio dal primo al secondo album dei Cure di Robert Smith, un’altra band decana, come gli Wire, del post-punk britannico. Con lo sperimentale 154 nel 1979 Colin Newman (voce, chitarra), Graham Lewis (basso), Bruce Gilbert (voce, chitarra) e Robert Gotobed (batteria) mettono a punto, alle soglie dei controversi anni ’80, la triade perfetta e spiccano il volo nel panorama indie inglese, innovativi e originali come nessun’altra band di estrazione punk. Non tradiranno mai questa loro attitudine, anzi si addentreranno – tutti ottimi compositori – nei territori del rock sperimentale e dell’elettronica, anche attraverso i loro lavori solisti.
Dopo una lunga sosta creativa negli anni ’90, hanno ripreso nei 2.000 a ritmo sostenuto la pubblicazione di nuovi eccellenti lavori in studio, adottando molto anche il formato Single/EP. Si sono così succeduti, tra gli altri, dischi tutti di alto livello come Send (2003), Object 47 (2008), Red Barked Tree (2011), Change Become Us (2013), Wire (2015), Nocturnal Koreans (2016, validissima appendice di Wire) fino al più recente Silver/Lead (2017). Nel frattempo nella band si è consolidato Matthew Simms alla chitarra. Newman e Lewis invece hanno mutuato negli anni a livello compositivo una predilezione per languide atmosfere pop e landscapes di sapore ambient (anche grazie all’uso parco ma saggio delle tastiere) che ha reso la band fautrice di intimistiche e crepuscolari fascinazioni sonore, sempre confortate da una imperitura e fedele passione per quel minimalismo obliquo che ha stigmatizzato la loro discografia precedente, ancora perfettamente in linea con la sensibilità del terzo millennio.
Il nuovo Mind Hive tuttavia è parecchio più composito nelle atmosfere del precedente lavoro – risalente a tre anni fa – Silver/Lead, che si faceva apprezzare per un mood generale meditativo più stabile, se non anche delle opere precedenti.
Se Be Like Them e Primed And Ready suonano heavy ed abrasive e il singolo Cactused riporta addirittura al debutto del 1977, Shadows pare librarsi in aria e Unrepetant intriga l’ascoltatore con il suo dipanarsi onirico. Gli Wire sembrano voler comunicare che sono ancora capaci di (quasi) tutto, che il loro post-punk sfaccettato è sempre in agguato, sebbene scevro da certe asperità urticanti del passato: Oklahoma è nervosa, Hung lenta ed ipnotica. Alla fine però Off The Beach (innocente e delicata) e la finale, lenta e melodica Humming (quasi commovente) sembrano ribadire, pur tra tanta ricchezza compositiva elargita generosamente da Colin Newman e c., che il sentiero ideale da continuare a percorrere per gli Wire del duemila sia quello di un pop/post-punk calibrato, lirico e minimale (come quello di In Manchester e Burning Bridges su Wire), pacificato con se stesso e perfettamente in sintonia con i tempi inquieti che viviamo.
Pasquale Boffoli