PERE UBU
“The Long Goodbye”
(Cherry Red, 2019)

Se come dichiarato dal loro ideologo e leader di sempre David Thomas questo The Long Goodbye è il testamento artistico definitivo dei Pere Ubu, allora si può dichiarare tranquillamente che la band si congeda (purtroppo) dai suoi fan e dalla storia del rock più intransigente con la stessa lapalissiana suggestione letteraria con cui si annunciò al mondo in quegli ormai lontanissimi 1976 (l’EP Final Solution) prima e 1978 dopo (il primo caustico, seminale album Modern Dance): nel 2019 succede in questo lavoro con l’omonimo titolo dell’ultima novella (della serie di Marlowe, per di più brano in scaletta) del 1953 dello scrittore noir Raymond Chandler, 43 anni fa era stato il nome dell’opera teatrale surrealista di Alfred Jarry, con cui diedero la stura con stupefacente spirito artistico premonitore alla loro new wave apocalittica e corrosivamente post-industriale in piena epoca punk. Stessa connotazione teatrale e dell’assurdo che ha sempre caratterizzato l’inquietante espressionismo vocale di David Thomas, abbinato al geniale nichilista sperimentalismo sonoro di Allen Ravenstine, Tony Maimone, Tom Herman, Peter Laughner. I Pere Ubu esprimevano già nel bel mezzo degli anni ’70 del XXI secolo il disgusto e il disagio metafisici per un mondo ormai giunto al capolinea, in cronica decadenza, criminogeno, saturo di misfatti e di immondizia autentica e morale. Hanno continuato a farlo senza soste per più di quattro decenni – anche tramite gli album solisti di David Thomas – senza mai smanie di protagonismo, ai margini estremi dello show business e con una coerenza artistica senza precedenti. È stato davvero un episodio isolato il lasciarsi sedurre all’interno dello loro discografia dalla tentazione del mainstream (Worlds In Collision, 1991). Né hanno pensato bene concludendo la loro carriera di essere più clementi perché con The Long Goodbye regalano ancora dieci brani ostici e urticanti, un ennesimo saggio di come distruggere l’ortodossia pop (What I Heard On Pop Radio), con la voce di Thomas che mette in pensione definitivamente l’arte del bel canto: recita (Fortunate Son, The Road Ahead), sbotta, sbuffa, bofonchia (Skidrow-on-sea, inesorabilmente dadaista), fregandosene della giusta tonalità, marcato stretto dai riff grotteschi e patafisici di analog synthesizers e theremin suoi e di Gagarin e Robert Wheeler, dalle percussioni stralunate di P.O. Jørgens, e dalla chitarra di Keith Molinè. Se Marlowe e Flicking Cigarettes At The Sun sono accostabili per l’ascoltatore ortodosso e probabilmente godibili, The Road Ahead è una sonnolenta odissea recitata di quasi dieci minuti dove riemergono le vecchie ossessioni “geografiche”. Con la meditabonda ed intensa Lovely Day David Thomas e la sua crew di Cleveland, Ohio salutano e vanno via.

Pasquale Boffoli