EX-SPERIMENTALE
"Cosa resta della musica sperimentale oggi?"
(Seconda Parte)
Nella prima metà del secolo scorso, in riferimento alle pratiche di sperimentazione artistica, si parla di avanguardia e nella seconda, di post avanguardia. È quindi corretto dire che oggi ci troviamo nell’età del doppio post? La musica sperimentale del nuovo millennio che deriva dall’avanguardia e dalla post avanguardia del ‘900 è post post avant? E sopratutto, che cosa ci condanna a tutta questa posteriorità? Cosa ci impedisce di procedere in avanti? Di guardare oltre?
Per prima cosa va detto che considerare la musica sperimentale come una categoria a compartimento stagno, che niente ha da spartire con quella popolare, sopratuttutto da un dato momento in poi, è una forzatura bella e buona. Lo sanno anche i bambini, una volta che il caffè è versato nel latte non si torna più indietro, non esiste più caffè, non esiste più latte, esiste solo caffèlatte. Come ho già avuto modo di riferire, le pratiche sperimentali delle avanguardie storiche, hanno iniziato a circolare nella cultura popolare già a partire dagli anni ’60, finendo per generare nuove correnti ibride. Ormai unite in un comune destino, cultura popolare e sperimentazioni, a partire dagli anni ’00, hanno iniziato a patire alla pari il latitare del “nuovo”, in favore di un costante ruminare modi e modelli del passato più o meno remoto. In particolare, è da molto tempo che attendiamo vanamente un “movimento artistico” che venga largamente percepito e partecipato con il carattere della “rottura” e dell’opposizione rispetto ai modelli culturali dominanti. E allora viene da chiedersi: la festa è definitivamente terminata? Possiamo solo attendere che il doppio post diventi triplo? Un attimo, prima di rendere le armi andiamo a guardare meglio nel dettaglio.
Se analizziamo più da vicino il panorama delle musiche sperimentali degli ultimi quindici anni, con tutto ciò che viene loro comunemente associato, c’è un dato macroscopico che salta subito all’occhio. Mai come in questi anni esse hanno avuto tanta diffusione e mai erano state così largamente partecipate ed attenzionate. Pur conservando al suo interno delle nicchie d’esclusività e rimanendo ovviamente un genere “minoritario”, se relazionato con altri “più facili”, la sperimentazione ha comunque raggiunto in breve tempo un discreto grado di popolarità che deve indurci a riflettere. Per rendersene conto, basta guardare al numero di artisti, produzioni, etichette grandi-piccole-minuscole, club, concerti, festival tematici, editoria tradizionale-virtuale (periodici, webzine, libri), piattaforme specifiche su internet e relativo blah-blah-blah planetario. Tutti dati da analizzare e tarare attentamente, sia nel dettaglio, che in realazione all’insieme. Le ragioni di questo incremento numerico vanno sicuramente ricercate nei cambiamenti generali ed, in particolare, nella velocità con la quale le informazioni si veicolano a mezzo dei nuovi media digitali. Oltre al dato quantitativo, esiste ed è ben rappresentato anche quello qualitativo, anche se “pescarlo” nel mare magnum delle attuali produzioni richiede un onere non indifferente. Affermare che il nostro è un tempo di stasi creativa e, contestualmente, che è in grado di produrre qualità artistica non è contraddittorio come potrebbe sembrare. Bisogna innanzitutto considerare che una parte degli artisti storici sono ancora in attività e sopratutto che, quelli emersi negli anni ’90, in alcuni casi, hanno rilasciato le loro prove migliori nel corso del decennio successivo. Inoltre, negli ultimi quindici anni sono emersi nuovi nomi assolutamente degni d’attenzione, nonostante la loro opera non si configuri con il carattere della rottura totale rispetto ai codici preesistenti. Voglio dire che, pur prevalendo massimamente l’approccio di maniera, se ci si guarda bene intorno, qualche avvistamento interessante, nonostante tutto, lo si può ancora fare.
Stilare un elenco con pretese completiste è impresa destinata al fallimento. Pensate soltanto alla vastità delle diverse correnti sperimentali rappresentate nel panorama odierno di musica “colta” ed “extra-colta”: concreta, elettroacustica, acusmatica, paesaggio sonoro, field recordings, drone, ambient, microtonale, neotonale, spettrale, new complexity, live electronics, impro radicale, digital processing, glitch, minimalismi e rumorismi assortiti, riduzionismo, lowercase, no-imput mixer, circuit bending, turntablism, sperimentazioni vocali, computer music, sound art, installazioni sonore e mixmedia. Una vera e propria giungla. Ma al di la di questo …
È giunto il momento di dire le cose come stanno e fare una seria autocritica. Tutti noi che ad oggi ascoltiamo, suoniamo, amiamo certe musiche, a quale titolo, in base a che cosa e fino a che punto possiamo affermare di occuparci di sperimentazione in senso sostanziale? Davvero siamo impegnati in qualche forma di esperimento o ricerca? O forse è più onesto affermare che utilizziamo, a discrezione e gusto personale, alcuni dei linguaggi che le avanguardie dei decenni passati (accademiche e non) ci hanno lasciato in eredità? E se così fosse, che differenza c’è, se non in termini di scelta di campo, interesse e gusto soggettivo, tra il decidere di suonare alla Luc Ferrari piuttosto che alla Neil Young? Di ascoltare Thomas Koner o Slayer? Di assumere a modello ispirativo Fausto Romitelli o Sex Pistols? Insomma, temo che ad oggi, nella maggior parte dei casi, il termine “sperimentale” non indichi più una tensione estetica rivolta alla ricerca effettiva, ma piuttosto una maniera, una categoria-genere come tante: classica, jazz, blues, rock etc. Abbiamo finito le banane? Dobbiamo rassegnarci? O c’è ancora margine per un orizzonte diverso da questo?
La musica sperimentale, intesa nella sua accezione storica, ha lavorato su tutta una gamma di determinazioni-seme: suono, rumore, silenzio, fonti, materia e via elencando. Per ognuno di questi semi ha, prima o dopo, espresso l’intero spettro, percorrendolo da un’estremo all’altro, verosimilmente fino all’esaurimento delle possibilità concettuali-formali poste in essere. Qualora oggi si volesse tentare il recupero di un significato e una prassi di questo genere, si renderebbe necessario trovare nuovi semi, una nuova “parola” in senso heideggeriano, capace di dare vita ad una “metafisica” sonora mai espressa prima d’ora, qualcosa di totalmente inedito. In definitiva, è proprio questa la prospettiva assente sull’orizzonte della contemporaneità; il salto che nessuno riesce più a compiere, la rottura che non si attua più. Confrontandoci con il passato, percepiamo quelle esprienze, per un verso, come geniali, straordinarie, irripetibili, e per l’altro, come distanti, cristallizzate, musealizzate.
È un fatto essenzialmente culturale. Quest’età dei consumi ad accesso istantaneo ci ha abituati ad avere piena disponibilità di ogni catalogo esistente, a coglierne liberamente qualsiasi offerta, appropriandoci rapidamente di ciò che desideriamo senza porci troppe domande. Così, anche rispetto al patrimonio musicale, accade che si scelga tra i tanti codici fissati dalla storia, se ne intaschi uno, o più, per poi “portarseli a casa”. Nei casi più infruttuosi questa acquisizione ha per esito solo sterili imitazioni formali, in altri, attraverso un processo di reinterpretazione-alterazione, si può approdare a risultati occasionalmente più interessanti. Nella seconda opzione, di solito, si vengono a coagulare meticciati più o meno bizzarri-fantasiosi, mix stilistichi ora fortunati, ora meno, matrimoni tra (ex)avant e popular music: i ritmi hip hop neri infestati di rumorismo bianco, il continuum del drone suonato da chitarre doom metal, le sonorità materiche vaporizzate nell’ambient, la sintesi granulare applicata alla battuta techno e via ibridando. È però assodato che tutto questo solo occasionalmente va oltre un estemporaneo “effetto novità” che con il passare del tempo risulta risaputo, e dunque, meno stimolante, proprio perchè sottoposto alla costrizione in griglie che si fanno progressivamente sempre più rigide e asfittiche. Del resto, di quali alternative potremmo disporre oltre a questa? Quando non si scorge luce in fondo al tunnel, non resta altro da fare che arredarlo.
La cosa più imbarazzante di tutta questa querelle sulla musica sperimentale è che, in realtà, la forza rivoluzionaria delle idee espresse dalle avanguardie storiche del secolo scorso e da alcuni dei compositori più illuminati, resta ad oggi, dai più, ancora incompresa-fraintesa, quando non addirittura ignorata. In quanti possono affermare in coscienza di tener in pugno il concetto di musica stocastica formulato da Iannis Xenakis? Chi ha veramente familiarizzato con le pratiche acusmatiche? Chi ha esplorato tutta la vastità teorica espressa dal genio di John Cage? E chi conosce il compositore egiziano Halim El-Dabh? Da una parte le avanguardie storiche sono divenute parte di un patrimonio culturale potenzialmente a disposizione di chiunque, dall’altra, presentano una complessità di pensiero-forma ed una visione talmente avanzata da renderle, ancora oggi, appannaggio effettivo di pochi studiosi ed appassionati. Esiste, cioè, un’evidente discronia tra i tempi di formulazione-produzione di certe estetiche radicali e i tempi di assimilazione delle stesse da parte delle masse. Anche limitandosi all’area delle sperimentazioni odierne, e dei suoi specialisti (o pseudo tali), si può facilmente osservare come in troppi pretendono di avvalersi dei suoi linguaggi-concetti, senza averli nè metabolizzati, nè tantomeno “interiorizzati”. Dunque si giunge al paradosso che tutto è già stato sperimentato (da alcuni) e niente è stato sperimentato (dai più), se non in modalità parziali e/o accidentali. Le platee più vaste, invece, quando va bene, procedono per vago “sentito dire” e per giunta, appena avvertono l’inevitabile “fatica” di certi cimenti, non esitano a darsi alla macchia.
È assodato che, la definizione enciclopedica di musica sperimentale colloca la stessa in un arco storico-temporale ben circoscritto mentre, nell’uso corrente, la critica, gli addetti ai lavori ed il pubblico, continuano ad utilizzarla disinvoltamente per indicare anche molte produzioni attuali. In realtà, come già riferito, negli ultimi dieci o quindici anni, non si è registrata l’emersione di nessun nuovo linguaggio, nessuna rottura o innovazione di rilievo rispetto a forme precedentemente già codificate e quindi, l’inclusione di alcuni artisti nella categoria “sperimentale”, equivale alla loro adesione ad una o più di quelle stesse forme ormai fissate. “Luoghi” cioè, dove, per certo, non c’è più niente da sperimentare-ricercare.
Diversamente, forse, il titolo “sperimentatore” andrebbe attribuito a coloro i quali, rifiutando facili parocchiette e sterili logiche wannabe, provano a sperimentare, nel senso più genuino del termine, una propria via espressiva, a ricercare una poetica identitaria, una dimensione quanto più possibile autonoma e personale. Se questo avviene in presenza di talento, disposizione alla “fatica” e quel minimo di cognizione storica-istruzione adeguata, sempre indispensabile per schivare l’ovvio dettato dall’ignoranza, di solito i risultati artistici, anche se non totalmente innovativi, ci sono. Dunque, questa dimensione “altra” è dotata di una valenza etimologica ed investe quegli artisti ai quali preme occupare spazi espressivi non identificabili con categorie precisamente ed immediatamente riconoscibili. Quegli stessi soggetti il cui posizinamento segna uno spostamento “di lato”, piuttosto che “in avanti”, rispetto ad un “nuovo” non eletto a valore in sè, ma piuttosto identificato come orizzonte asintotico. Qualcosa che si manifesta come intenzione e slancio, un’azione di avvicinamento ad una meta ideale, mai raggiunta ma costantemente al centro del focus tensivo. Nell’affermare questo, bisogna porre attenzione a non cadere in tutta una serie di trappole, la prima delle quali è costituita dal falso mito della cosiddetta “autenticità”. A questo fine basterà seguire il percorso di svelamento di quest’idea tardo-romantica, tanto cara a pubblico e critica, offertaci su un piatto d’argento da Hugh Baker e Yuval Taylor, autori dell’illuminante saggio intitolato “Fake It”, nella versione italiana: “Musica Di Plastica – La Ricerca Dell’Autenticità Nella Musica Pop”, ISBN 2009.
Dunque, in accordo con Ludwig Wittgenstein, potremmo sostenere che “l’unica cosa che puoi fare per il mondo è migliorare te stesso”, e con lui convenire che questa rappresenta l’unica via percorribile per raggiungere esiti in qualche misura “imprevedibili”, secondo la classica definizione cagiana di musica sperimentale. Quindi, diciamolo a chiare lettere, sperimentazione oggi fa rima solo con ricerca di identità artistica, con lavoro, fatica, coraggio e superamento di sè. Da qui ripartiremo per le prossime riflessioni adeguatamente corredate di alcuni casi esemplari.
Gianluca Becuzzi