INTERDETTI
I brani che non si possono più ascoltare

L’estate spalanca le finestre e ciò che per mesi è risuonato tra le quattro pareti domestiche esonda in strada portando con sé tutte le rivelazioni delle quali avremmo volentieri fatto a meno. Il giovane dirimpettaio è un aspirante chitarrista e, in quella che per clemenza definiremo, la sequenza dei suoi esercizi, alterna ovvietà (i riff rock più scontati) al puro sbraco (una brutta imitazione del classico fraseggio in-solo hendrixiano), con una netta predominanza della seconda parte del programma. Il vicino con i tatuaggi trash, il cappellino da baseball bianco e i pantaloni oversize da incontinenza oceanica, bombarda a tutto fuoco con sculettamenti reggeaton, e la cassiera del bar tabacchi si abbandona senza pudore al neomelodico partenopeo. Certo, è facile trovare intollerabile l’assedio dei propri spazi acustici quando la selezione musicale che qualcuno ha scelto per te non è assolutamente di tuo gusto. Chi ha mai chiesto il martirio a suon di un mix mefitico a base di Deep Purple d’ordinanza, derive giamaicane incredibilmente tamarre e Nino D’Angelo? E fin qui galleggiamo chiaramente nell’ovvio.

u2
U2

Ci sono però anche circostanze, del tutto diverse, che ci generano un fastidio altrettanto autentico anche se apparentemente meno plausibile. Due esempi tra i tanti possibili … Quando al supermercato, mentre si vaga tra gli scafali intenti a scegliere cereali e formaggi, al canto adenoideo di Eros Ramazzotti, riprodotto dagli speaker al consueto modestissimo volume muzak, sopraggiunge quello assai più rotondo di Dave Gahan, capita che sfugga, anche solo mentalmente, un’espressione di disappunto: “No, Enjoy The Silence no, non se ne può più!”. Oppure, ancora più comunemente, scorrendo la home di Facebook mentre si gettano gli ormeggi al molo dello stato di veglia, sorseggiando il primo caffè della giornata, fermare lo sguardo su alcuni dei titoli musicali postati fa istantaneamente scattare la stizza: “Ma chi cazzo è questa che sente il bisogno di postare A Forest dei The Cure? E quest’altro che propone gli U2? Basta, io questi li cancello dai miei contatti.”. Di contro, se qualcun’altro ha postato classiconi pop altrettanto telefonati, se non forse di più, come Rolling Stones, Neil Young, Beatles o Lou Reed, magari, la cosa passa totalmente inosservata. Perché mai? Nell’ambito soggettivo al quale faccio ovviamente riferimento, i Depeche Mode, un tempo, non mi erano del tutto sgraditi, mentre Seventeen Seconds dei The Cure è stato addirittura un album che ho amato. E allora perchè Ramazzotti o Pausini finiscono per rappresentare “il male inevitabile”, che come tale passa sotto silenzio, mentre gli altri no? Non è paradossale?

Nell’esperienza di ogni ascoltatore, inutile negarlo, esistono brani musicali che, nel corso degli anni, passano dall’esser amati, o comunque “tollerati”, all’esser assai meno graditi, quando non addirittura direttamente detestati, aborriti, rifiutati, evitati. Che cosa origina questo ripudio e quali processi possono condurre ad un tale ribaltamento empatico? A ben vedere, si tratta di ripensamenti, più o meno radicali, nei confronti di un soggetto il quale, per sua natura, è evidentemente sempre uguale a se stesso, essendo dato una volta per tutte, come è propriamente la registrazione di una composizione musicale o di una canzone. E dunque, da dove nasce la volontà di interdizione selettiva a posteriori? La questione potrebbe sembrare oziosa e irrisolvibile, in quanto di natura essenzialmente soggettiva, ed effettivamente è proprio il dato dell’esperienza/gusto personale a produrre, per ognuno di noi, un diverso elenco dei “graditi” e dei “banditi”. Ma è altrettanto vero che se esiste, come esiste, una fenomenologia che qui chiameremo de “l’interdizione a posteriori”, questa investe anche un ambito collettivo dotato di propri caratteri specifici. Vediamo a grosse linee quali protrebbero essere tentando una sintesi per punti essenziali.

depeche-mode
Depeche Mode

Come nel caso della tolleranza all’alcol o ad altre sostanze intossicanti, anche nel caso della musica (che ogni buon appassionato sa perfettamente esser tossica, inquanto ad alta induzione di dipendenza) ogni soggetto ha il proprio grado di sopportazione. Superata quella soglia ciò che era “buono” diventa “cattivo”. Trasformare il desiderio in rifiuto, l’amore in odio è questione di un attimo, una sola goccia in più. Detto in altri termini, ognuno ha il proprio rapporto con l’ascolto che è regolato, tra le altre cose, anche dalla rutinarietà, dalla ripetizione confermativa e dalla ritualità affettiva, tutti elementi che possono mantenersi nel tempo o rompersi, prima o dopo, a seconda dei soggetti, del loro temperamento e delle loro specifiche dinamiche relazionali con l’oggetto in questione. Esemplificando: chi si rifugia in un revival, nella nicchia rassicurante di un tempo cristallizzato nel passato, o in un filone saldamente ancorato ad una tradizione (vedi alla voce rockabilly, garage, country etc.) avrà necessariamente un’idea del proprio rapporto con la musica antitetica rispetto a coloro che inseguono l’idea di novità, trend, innovazione, ricerca. È di tutta evidenza che la prima categoria è meno soggetta a cadere nella fenomenologia dell’interdizione a posteriori, esattamente al contrario della seconda, la quale, in quanto esteticamente predisposta alla mobilità e al rinnovamento, è portatrice di un più “alto grado di infedeltà”. Insomma, scelte individuali che vanno ad infilarsi le divise della parrocchia più conformi alla loro taglia.

C’è poi anche un dato oggettivo macroscopico da non trascurare, per quanto possa apparire ovvio. Un brano di successo inizia ad essere suonato ovunque trasformandosi in un tormentone, qualcosa difficile da schivare, sia che l’hype duri una stagione o una vita. Come nell’esempio iniziale dei vicini molesti, non c’è peggior cosa che dover subire anzichè scegliere. Voglio dire, The Wall dei Pink Floyd, dal mio punto di vista, è un brano “x”, nè bello, nè brutto, ma il fatto di trovarselo da sempre anche nelle mutande lo trasforma in una tortura. Attacca il riff di chitarra ed inizi a grattarti. L’intolleranza verso un dato soggetto musicale, al di là della specifica valutazione qualitatitiva, è largamente determinata da indici quantitativi, e dove inizia il bombardamento mediatico la percentuale di manifestazioni allergiche, verosimilmente, si innalza. Questo a livello generale, poi, inevitabilmente, ognuno di noi ha delle cicatrici che sono solo sue. La coinquilina che ascolta compulsivamente solo e soltanto The Smiths (non chiedetemi perchè, non sono uno psicoterapeuta), il fratello maggiore del tuo miglior amico che è un patito di progressive con bisogni assoluti di condivisione, l’ex-fidanzata (avventatamente scelta in base a doti diverse dai gusti musicali) che per far le pulizie domenicali elegge Radio 105 a colonna sonora ideale. Ognuno ha la propria collezione di traumi sonori, varia e dolorosa.

cure
Cure

Io, ad esempio, rabbrividisco ogni volta che in calce ad un programma live al quale sono interessato vedo comparire la formuletta “a seguire festa dark”. Cosa singnifica? Significa che se a termine concerti mi volessi trattenere a bere qualche drink e/o a socializzare con la fauna locale, dovrei necessariamente pagare gabella, sorbendomi una scaletta di darkwave ’80 (peggio ancora se è ’90) fatta dei soliti 15 nomi/30 canzoni. Certo, se sul palco c’erano i Clan Of Xymox me la sarei cercata, ma può capitare (e a me è capitato) che “la festa dark” faccia seguito, incomprensibilmente, ad un’esibizione dei Whitehouse. Ed anche in questo caso il principio è lo stesso: Sisters Of Mercy, Alien Sex Fiend e Bauhaus a me generano orchite perchè da giovane ho frequentato certi “giri” fino alla nausea bulimica. Quindi, in un certo senso, la responsabilità è anche mia.

Comportamenti sconsiderati, cattive frequentazioni o sovraccarico mediatico, comunque sia, quando un amore finisce finisce e c’è ben poco da fare. Qualche volta la disaffezione è incoraggiata dalla carriera discendente di un dato artista/gruppo che spinge a posizioni revisioniste non scevre da risentimenti per “il tradimento della causa”. Altre volte neppure quello, semplicemente il tempo passa, noi esseri umani cambiamo, le canzoni no, sono fissate per sempre così e noi non le troviamo più seducenti come una volta. Sono specchi che non riflettono più la nostra immagine. È capitato, capita e continuerà a capitare. E quando la rottura è irrimediabilmente avvenuta non ci resta che formulare l’interdizione finale, scagliando il terribile anatema: “vade retro Santana!”.

Gianluca Becuzzi