UK POSTDUB 0.1
Demdike Stare, The Haxan Cloak, Raime, Roly Porter

UK Postdub 0.1È sempre stato così: la black music formula un nuovo stile ritmico e i bianchi se ne appropriano. Come già accaduto con blues, jazz, r’n’b e funk, anche il dub giamaicano, adeguatamente candeggiato, è da tempo entrato a far parte del lessico musicale della cultura bianca, producendo non di rado risultati estetici tanto interessanti quanto inediti. Se in First Issue (1978), debut album dei Public Image LTD, comunemente considerato il varo ufficiale del post punk, il dub è solo un’ombra, nel successivo Metal Box (1979), i fraseggi del basso non lasciano margine al dubbio, dichiarando scopertamente la loro derivazione giamaicana. Ma il gruppo di Johnny Lydon non rappresenta l’unico esempio di post punk screziato di dub, basta pensare al singolo d’esordio dei Bauhaus, la ben nota selva di delay gotici Bela Lugosi’s Dead (1979), o alle schegge del Pop Group: Mark Steward + Maffia e, ancora di più, Adrian Sherwood con le sue tante produzioni targate ON-U Sound, sincretismi esemplari di elettronica bianca e sincope nera. Negli anni ’90 gli esempi si moltiplicano: dalla geniale formula di minaccioso cold dub escogitata da Mick Harris per gli Scorn, non dissimile da quella applicata da sigle analoghe come Techno Animal, Ice, Bill Laswell di certi album, passando per il celeberrimo trip hop di Massive Attack o certe forme di d’n’b, per arrivare fino alla fumosa techno dub berlinese di casa Chain Reaction, più varie altre formazioni elettroniche del periodo: Orb, Letfield, Meat Beat Manifesto etc. Infine, nel primo decennio del nuovo millennio ci penserà la dubstep ad includere la cifra tanto nella denominazione quanto nei ritmi, stabilendo in via definitiva l’avvenuta metabolizzazione collettiva di un suono che ha ormai travalicato i confini delle proprie origini geografico-culturali.

Questa rapidissima ricognizione serve unicamente a puntualizzare che, da quasi quarant’anni a questa parte, il verbo dub si è ripresentato, sotto varie forme, in numerosi filoni della musica pop occidentale ed in particolare in quella inglese. Una premessa necessaria per introdurre le quattro sigle britanniche qui trattate: Demdike Stare, The Haxan Cloak, Raime e Roly Porter. Emersi nel corso dell’ultimo quinquennio (o poco più), questi giovani artisti, pur conoscendosi e gravitando nei medesimi circuiti, non costituiscono una vera e propria scena, ma piuttosto condividono una sensibilità musicale ed una visione sonora con più di un elemento condiviso. In riferimento al loro stile la stampa specializzata ha parlato di post dubstep, o più semplicemente post dub, anche se, a ben vedere, il loro sound è il risultato di una centrifuga post-tutto nella quale il dub è solo uno dei tanti ingredienti: rarefazioni ambient/drone, tensioni post industrial, allucinazioni psichedeliche, suggestioni esoteriche, etno-tribalismi e battuta elettronica di varia estrazione. Forse è anche, e sopratutto, per il loro carattere eclettico che gli album prodotti dalle quattro sigle citate risultano tra i più freschi e stimolanti emersi dal panorama musicale degli ultimi anni, sicuramente questo è il motivo per il quale ho deciso di occuparmene in questa sede. A scanso di equivoci, va però subito precisato che, nelle composizioni prese in esame, il dub è presente in una declinazione bianca ed algida, distante anni luce da quella delle sue origini, una lettura addirittura antitetica che ribalta le radici solari in avvolgenti scenari notturni. Del dub rimangono innegabilmente le tecniche: l’impiego di eco e delay per creare rifrazioni poliritmiche, le dilatazioni dei riverberi, la profondità subarmonica delle bass line elettroniche, con quel distintivo suono “slabbrato” o in reverse, come da lezione dubstep. Insomma un menù molto più adatto ai palati dei buongustai delle elettroniche radicali contemporanee, piuttosto che agli estimotori di cannabis, rassicuranti esotismi tropicali e spiagge assolate.

Demdike Stare
Demdike Stare

Aprono le danze Demdike Stare, duo originario di Lancaster, formato da Miles Whittaker e Sean Canty. Demdike era il nome con il quale è passata alla storia Elizabeth Southern, una donna vissuta a Pendle nella prima metà del ‘600, accusata di aver commesso tre omicidi per stregoneria. Symbiosis (2009) è il titolo del debut album di DS, 11 brani che contengono già tutti gli elementi caratteristici del loro sound, pur non rappresentandone l’apice creativo, che verrà raggiunto nell’immediato seguito. Stabilendo un’apprezzabilissima consuetudine, DS pubblicano EP e MiniLP in vinile, per poi raccoglierli (aggiungendovi inediti) in ampie raccolte su CD. Negli anni, vedono così la luce su Modern Love, la label mancuniana di Andy Stott, nell’ordine: il triplo CD Tryptych (2011) ed il doppio Elemental (2012), ad oggi le prove più mature e convincenti date alle stampe dal duo. La pozione magica di Whittaker e Canty include, ben miscelati, un po’ tutti gli ingredienti elencati sopra, conferendo agli album una piacevole alternanza tra momenti di stasi e riprese cinetiche: tenebrosa ambient/drone, etno-primitivismo, discreta punteggiatura elcettro-ritmica e gelide rifrazioni dub. I due si sono formati essenzialmente nell’ambito della DJ culture, ma la loro appartenenza alla generazione-macina-tutto svezzata da youtube, conferisce loro quella disinvoltura, nel disimpegno delle manovre stilistiche più azzardate, caratteristica della loro appartenenza cultural-anagrafica. Anche se, va detto, non sono loro estranee neppure fascinazioni che vengono da più lontano, vedi alle voci: magia, stregoneria, antiche leggende britanniche, psichedelia d’antan e cinema horror lo-budget, con attenzione speciale per quello italiano di Mario Bava e Lucio Fulci, spesso utilizzato anche nelle loro clip e nei video-collage abitualmente proiettati durante i live. L’unica perplessità che personalmente nutro, riguarda gli sviluppi futuri della loro carriera, dato che l’ultima prova, una serie di sette 12″ denominata Testpressing pubblicata tra il 2013 ed il 2015, è, tra tutte, di gran lunga la meno convincente. Restiamo in attesa di un nuovo album, augurandoci che giunga a smentire questo infausto presentimento.

The Haxan Cloak
The Haxan Cloak

Rimanda al mondo dell’occulto anche la denominazione scelta da Bobby Krlic (Wakefield-West Yorkshire, classe 1985), dato che The Haxan Cloak è traducibile come “il mantello della strega”. A parte questo, a prima vista, Krlic potrebbe sembrare un giovanottino come ce ne son tanti in giro, capelli corti, barba nera e braccia tatuate, ma i risultati artistici conseguiti in pochi anni di attività smentiscono questa prima ingannevole impressione. Quattro Mini/EP pubblicati tra 2009 e 2012 ed un album d’esordio omonimo del 2011, registrato a casa di mamma e papà, che nondimeno si fa notare, in un catalogo di “musiche estreme” come quello di Aurora Borealis, sono già un buon biglietto da visita. Ma il colpo gobbo Bobby lo piazza con Excavation (2013), edito dalla Tri Angle, unanimamente accolto da critica e pubblico come uno dei migliori album di drone/ambient music degli ultimi anni. I climi non esattamente rilassati che si respirano nelle nove composizioni di Excavation sono eloquentemente annunciati dal cappio che penzola nel buoi riportato sulla front cover. Dunque, stesure larghe e climi vibranti di cupa tensione neo-gotica accompagnano tutto l’ascolto della tracklist. La quasi-assenza di interventi propriamente ritmici dovrebbe allontanare l’album dall’ambito post dub, non fosse che, anche in questo caso, quelle frequenze ultra-basse con i filtri mobili ed i reverse in evidenza, riportano alle timbriche tipiche della dubstep. Ed in ogni caso, THC, con questa prova, si pone di diritto un gradino sopra allo standard delle produzioni di genere, polverizzando la tanta ambient dark soporifera, la drone pretenziosa ed il post industrial stereotipato che fin troppo ben conosciamo. Ed infatti, il talento di Krlic non è passato inosservato se si considera che lo hanno scelto come remixer gli eccellenti Akkord o, ancora di più, che l’ha voluto con se nel suo ultimo album quella vecchia volpona di Bjork. Speriamo solo che la cosa non abbia intimidito troppo Krlic stesso, visto che sono già tre anni che aspettiamo vanamente il seguito di Excavation. La sindrome Burial (paralisi creativa dopo due album acclamati come capolavori) è sempre dietro l’angolo.

Raime
Raime

Per nostra fortuna è gustosa ed ancora calda di stampa Tooth (2016), seconda prova sulla lunga misura dei Raime, duo di base londinese formato da Joe Andrews e Tom Halstead, supportati fin dagli esordi dalla lungimirante Blackest Ever Black. Loro avevano dato prova certa di talento fin dall’inizio. Come non trovare eccitante la sequenza dei quattro singoli inanellati tra il 2010 ed il 2012, mistura seducente di ritmiche tribaleggianti, risonanze dub e raggelanti brividi notturni? Diversamente, trova la propria forza espressiva nel rallentamento estremo e nella dilatazione strutturale, che impropriamente verrebbe da definire doom, il primo album, Quarter Turns Over A Living Line (2012), lavoro che li ha rivelati definitivamente, facendoli conoscere ed apprezzare da un audience internazionale che fa della qualità la prima ed unica richiesta. Da digital native quali sono, Joe e Tom trovano del tutto naturale utilizzare le tecnologie disponibili, così come stratificano ed amalgamano, senza porsi troppi problemi, input che vengono da epoche e generi musicali tra loro diversi. Nel periodo intermedio tra la pubblicazione di Quarter Turns Over A Living Line e Tooth i due hanno dato alle stampe uno split-single in compagnia di Pete Swanson Positive / Esie (2012) ed un EP omonimo (2013) utilizzando il moniker Moin, brevi test nei quali si sono esercitati con chitarra, basso e batteria, lasciando da parte l’equipaggiamento elettronico. Un’esperienza utile a costruire le linee portanti di Tooth il quale, segna una differenza rispetto alle produzioni passate di Raime, proprio nella dialettica che intavola tra partiture elettriche/acustiche ed editing/programmazione digitale. Inoltre, gli interventi di chitarra, nervosi ed ossessivi, non possono non richiamare alla memoria fantasmi post punk, (Martin Hannett e la sua regia in primis), un po’ come, in tempi relativamente recenti, era accaduto con i primi singoli di Factory Floor. Fortunatamente, però, si tratta di un recupero scevro da abbandoni nostalgici. Dunque, che si proceda pure così.

Roly Porter
Roly Porter

Tornando un po’ indietro nel tempo … A metà anni zero, avevamo fatto la conoscenza di Roly Porter e Jamie Teasdale, che all’epoca si facevano chiamare Vex’D, a mezzo del loro doppio CD, su Plant Mu, Degenerate (2005). Arcigno, ruvido, implacabile, quel lavoro si era segnalato come uno dei migliori esempi di dubstep del decennio. Dopo una manciata di singoli e due full lenght, il sodalizio tra i due termina, ed ognuno prosegue per la propria strada. Quella di Roly Porter viene inaugurata con la pubblicazione di Aftertime (2011), dal quale emerge chiaramente la nuova direzione artistica intrapresa: meno ritmo a favore di ampi sounscapes di gusto sci-fi. Saltando l’irrilevante Fall Back – Live At Aldeburgh (2012) con Cynthia Millar, è con Life Cycle Of A Massive Star (2013) che ritroviamo Porter impegnato a seguire le stesse linee guida del solo-debut. Segnando una crescita creativa costante, la recente pubblicazione su Tri Angle di Third Law (2016), vede il nostro toccare i vertici della propria parabola artistica. Il titolo chiama in causa la terza legge della dinamica di Newton, il principio dell’azione e della reazione, mentre le cinematiche suggestioni sonore ci proiettano in dimensioni ignote che potrebbero riferirisi tanto a spazi interiori, quanto a vastità galattiche. Micro e macro cosmo si scrutano vicendevolmente attraverso la pupilla-pianeta raffigurata in copertina. Le otto tracce dell’album sono, per diversi aspetti, anche una sorta di rilettura-tributo della cosmica tedesca anni ’70, ma dotata di potente senso del qui ed ora. Al solito, la pasta sonora è dubstep, la scrittura assolutamente no, ed esattamente in questo risiede, per ovvie ragioni, l’attribuzione di posterità rispetto al dub ed alle sue potenzialità evolutive. Per quanto mi riguarda, Third Law è già stato iscritto di diritto nella personale top ten dei migliori album del 2016, senza se e senza ma.

Demdike Stare, The Haxan Cloak, Raime e Roly Porter rappresentano solo la punta (d’eccelenza) dell’iceberg, e chi volesse approfondire, allargando anche un po’ il panorama geo-stilistico indicato dal titolo, può immergersi sotto la superficie alla ricerca di altri interessanti spunti. Rapidissimamente: scorrendo il catalogo di Downwards Records, etichetta di Birmingham diretta da Karl O’Connor/Regis, è consigliato drizzare le antenne quando si incrociano i nomi di Samuel Kerridge, Talker, Oake e Grebenstein. Oppure, volando a Berlino, si possono vagliare le ultime uscite di Samurai Horo, in particolare: Ena, Pact Infernal, Fenton, Lucy, Ancestral Voices. O ancora, procedere in ordine sparso: Headless Horseman, SNT, Ancient Methods, Nastika, Mogano, Zosima, Stave, Vessel. Tutti esempi di progetti portatori di un patrimonio genetico ereditato dalla club culture (dub ma anche techno, breakcore, d’n’b) in evidente transito verso aree estetiche “altre” rispetto al puro e semplice approdo dance floor. Realtà del sottobosco elettronico europeo varie e difficilmente catalogabili secondo una cifra identificativa unitaria, misteriosamente in bilico tra arcano e contemporaneità, forme elusive ma degne d’attenzione. Quando affermo che nonostante la crisi della pop music, per nostra fortuna, esistono ancora casi di qualità artistica spiccata, penso anche e sopratutto a questi contesti e a questi nomi. E dato che “mala tempora occurrunt”, se alla richiesta, attualmente inappropriata, di segni epocali si sostituisce quella, neppure troppo più modesta, di musiche ben concepite e realizzate, affascinanti e per niente anodine, ecco che qui si può fiutare più di una buona traccia da seguire. Buona caccia (incruenta) a tutti.

Gianluca Becuzzi