MATTHEW AND THE ATLAS
"Temple"
(Communion, 2016)
È bello fermarsi all’inizio di questo disco e sfogliare il proprio destino con tranquillità e fermezza, è bello bloccarsi anche per una manciata di minuti e godere per dimostrare che l’arte dell’inglese Matthew Hegarty, in arte Matthew And The Atlas, non è solo quella di dare belle cose, ma di fare belle canzoni che sedimentano nel tempo, nella vita.
Da molti definito – e ci può anche stare comodamente – il Bon Iver d’oltreoceano, Matt (per gli amici) in questo Temple ci mette l’anima, e lo fa con la coerenza intima di un sopravvissuto al disimpegno di un underground che scalpita senza calciare, la sua poesia esistenzialista ma non troppo unisce i cardini di osservazioni personali e occhiate nei dintorni del suo “spettro” umano, canta e suona un indie folk tirato in pop wave che rende tranquilli facendo pensare.
Undici tracce buone per una giornata piovigginosa, una delicatezza riverberata e solitaria che ha i suoi picchi in Graveyard Parade, Elijah, Old Master, Gutter Heart, ma poi come a ripensarci dà un colpo di coda con Mirrors e Modern World e rialza la testa per scrutare – più a lungo – l’orizzonte che s’infrange tra i suoi istinti eterei.
Max Sannella