DIRTY BEACHES
"Badlands"
(Zoo Music, 2011)
Dirty Beaches è il progetto solista di tale Alex Zhang Hungtai, natio di Taipei (Taiwan) ma approdato a Montreal (Canada) non prima però, di essersi concesso qualche sosta alle Hawaii, a San Francisco e tanto per cambiare a New York. È dal lontano 2006 che da sfogo alla sua irrefrenabile prolificità seminando prove discografiche nei formati più vari come album, compilation, singoli, split ed EP, tra le altre cose riesumando anche dei supporti, come la cassetta, da tempo dimenticati.
Nell’oramai digerito 2011, giunge al suo quarto album, Badlands, con il quale si inoltra lungo sentieri impervi, di non facile gestibilità, ma percorsi con gran maestria. Una copertina di chiara matrice “Vega” (vedi primo album), un look (t-shirt bianca e brillantina nei capelli) ispirato ad un “selvaggio” Marlon Brando nonché un titolo esplicito, mai più azzeccato, lasciano intendere quali saranno gli spettri che si materializzeranno nei suoni: da un lato un culto assoluto come i Suicide, dall’altro un arcinoto come Elvis, rintanati in bassifondi paludosi e in corpi meccanici dall’animo blues. Di chitarre neanche l’ombra così come pure di nessun altro “classico” strumento rock, solo Alex e i suoi infernali macchinari elettronici in bassissima fedeltà dal sound livido, polveroso, a tratti orrorifico. La struttura dei brani è quanto di più semplice si possa immaginare: motivi reiterati, spesso presi in prestito da altri brani (Horses e A Hundred Highways vi ricorderanno sicuramente qualcosa), sui quali vengono ricamati incubi “suicidi” come in Speedway King e in Sweet 17, o galoppate rockabilly come in Horses, o ancora melodie spettrali e boati rumoristici post-industriali come in Hundred Highways. Nel secondo lato si cambia registro, i ritmi si fanno più pacati, rallentato, si fermano. True Blue diffonde una melodia malsana intrisa di tristezza, mentre Lord Knows Best evoca ricordi blues romantici, sulle note di un piano arcaico e scarno. Gli ultimi due brani ci spingono in un incubo metropolitano dalla cadenza melmosa, in cui si insinuano rumorismi, bufere elettriche, paesaggi fumosi e scenari apocalittici. Di queste Hotel pulsa come un cuore che sta lentamente per arrestarsi mentre si viene trascinati dalla sua acida agonia di matrice Black Heart Procession.
Ascoltare Birdland è come guardare una pellicola corrosa dal tempo, di quelle in cui immagini ingiallite si susseguono lentamente concedendosi a tratti qualche tuffo in un colore sbiadito. L’incubo è sempre in agguato e rievoca spesso umori angoscianti di “lynchiana” memoria al punto da potersi sentire coinvolti in quella brutta storia di omicidio che prese piede a Twin Peaks: provate ad uscirne!
Salvatore Lobosco