JACKSON C. FRANK
"S/T"
(Columbia, 1965 – Earth, 2014)
Nel 1965 al Greenwich Village di New York i tempi sono adeguatamente maturi per accogliere l’onda folk di ritorno da parte di una nutrita schiera di imberbi ma determinati cantautori che lasciandosi le proprie home town alle spalle, avevano raggiunto quel quartiere newyorkese che di lì a poco sarebbe esploso, con grande gioia del “mercato” discografico che a sua volta stava per vivere e sperimentare la nuova dimensione vinilica, proprio in quegli anni infatti le vendite dei long playing stavano superando quelle del supporto a 45 giri. All’interno di questo importante circuito folk muove i primi passi anche Jackson C. Frank, autore introverso, sfortunato e poco scaltro soprattutto a causa di un’infanzia a dir poco drammatica, a undici anni rimane coinvolto nell’incendio della sua scuola, molti studenti perdono la vita, lui rimane gravemente ustionato e minato nel fisico e nella mente. Ma l’ambiente del Village evidentemente gli sta stretto, soprattutto dopo essere venuto in possesso di un cospicuo risarcimento assicurativo per i tragici fatti di qualche anno prima, così decide nel ’65 di partire per Londra, dove conosce Paul Simon che gli produce nello stesso anno il suo primo, unico, album.
La voce robusta di Jackson C. Frank non possiede la grazia melanconia e struggente di un Tim Buckley e nemmeno la forza espressiva e limpida delle composizioni di Tim Hardin, il suo punto di forza e originalità sta piuttosto in uno stile chitarristico e cantautorale a metà strada tra i bardi albionici alla Renbourn e i nuovi folk singer d’oltreoceano, orfani di Woody Guthrie che rappresenta un mirabile pregio del suo personalissimo stile. Nelle sue canzoni ovviamente c’è molto del suo tragico vissuto, da quella iniziale Blues Run The Game pregna di amarezza per una vita dissoluta fatta di fughe e alcol, che diventerà il suo maggior successo, ripresa anche da Simon & Garfunkel, alla sua ritrosia alla socialità chiaramente dichiarata in I Want To Be Alone. Ma ci sono anche il folk blues con un giro alla Lightning Hopkins e la voce presa in prestito da Fred Neil di Here Come The Blues o la rassegnata, elegiaca, tristezza di Milk And Honey e da My Name Is Carnival ha sicuramente preso qualcosa anche Buckley.
Giunto ai giorni nostri in varie riedizioni, discogs ne conta addirittura una decina, e spesso con aggiunta di brani e outtakes S/T resta e riconferma in questa ristampa pubblicata nel 2014 dalla Earth, fedele all’originale, con le sue dieci canzoni, un “capolavoro” sofferto della musica folk angloamericana degli anni ’60, dal quale un po’ tutti hanno preso qualcosa in vario modo, ieri come oggi, da Fred Neil a Sandy Denny a Renbourn a Marianne Faithfull, fino a Mark Lanegan, ma nessuno, ahimè, gli ha restituito nulla. Muore in solitudine il 3 Marzo del 1999 non prima di aver passato altre tragiche sventure, come la morte di un figlio e la perdita di un occhio, dimenticato da tutti, ma forse mai adeguatamente apprezzato, tranne che da un suo fan accanito che tenta disperatamente di riportarlo in pista, ma non farà in tempo.
Giuliano Manzo