L’AGORÀ DEI CRETINI
Sei affermazioni aberranti sulla musica
Chiunque frequenti, o abbia frequentato, in qualsiasi forma e a qualunque titolo, il mondo della musica, abbastanza a lungo da averci familiarizzato almeno un po’, non può non aver sentito pronunciare più e più volte lo scabroso frasario composto dai seguenti sei tragici punti:
- La musica mi piace tutta basta che sia bella.
- Questa non è musica è rumore.
- I giornalisti e i generi musicali non servono a niente.
- Questo avrei saputo farlo anch’io.
- La musica elettronica (e/o fatta al computer) è fredda.
- A me piace la musica suonata.
Ecco sei bestialità inaccettabili, eppure talmente ordinarie da poter esser rubricate alla voce “luoghi comuni”, che trasudano istantaneamente: volgarità, ignoranza, supponenza, impudicizia e sordità, il tutto in dosi letali. Citando a sproposito Wittgenstein (a sproposito dato che l’enunciato prescelto fa riferimento alla metafisica e non all’idiozia) si potrebbe sentenziare lapidariamente: “… Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”. Ma siccome, come è noto, da queste parti lo spirito polemico si spinge fino all’autolesionismo, anziché utilizzare Wittgenstein per chiudere la questione, lo impiegheremo per aprirla.
Intanto affermiamo serenamente che l’ignoranza è fatto interdisciplinare. Basta infatti cambiare quelle frasi di pochissimo per adattale perfettamente agli analoghi sproloqui che, con levità pari a blocchi di cemento sganciati dal quinto piano, piombano sul mondo delle arti visive:
- La pittura mi piace tutta basta che rappresenti qualcosa. (trad.: … basta che sia limpidamente figurativa)
- Questa non è pittura sono scarabocchi. (il riferimento è a tutta la pittura astratto-informale, Pollock in testa)
- I critici d’arte e i generi pittorici non servono a niente. (eh certo …)
- Questo avrei saputo farlo anch’io. (es.: Mondrian, Dubuffet, Fontana, Burri, Manzoni e tanti altri)
- La pittura astratta è fredda. (e/o non la capisco, non mi dice niente, non significa niente)
- A me piace la pittura fatta con il pennello. (moratoria tecnica vagamente penalizzante)
Per completare il quadro, come se così non fosse sufficientemente desolante, di solito seguono elogi indirizzati a qualche celebrato virtuoso della tecnica: un paio di maestri rinascimentali, nel caso della pittura, qualche centometrista delle sei corde, in quello della musica. Però, come si può facilmente osservare, la solfa in definitiva non cambia, perché il problema non è di ordine particolare ma, piuttosto, di comprensione generale. Evidentemente, esiste proprio un problema nel riuscire a mettere a fuoco, metabolizzare e partecipare quelli che sono i principi basilari che regolano l’arte nella sua totalità. E non aspettatevi che adesso salga in cattedra e controbatta uno ad uno i sei punti in questione, dato che è evidente a chiunque sia dotato di un minimo di buon senso, anche se sprovvisto di laurea in estetica o storia dell’arte, che la brutale grettezza di quelle affermazioni si commenta da sola, e anche solo concedere una replica è atto inutile e squalificante. Così, visto che dalla porta non si entra, proviamo a passare dalla finestra. Poniamo la questione in altri termini e chiediamoci cosa e come si potrebbe fare per evitare, o quantomeno limitare, tutto questo scempio.
La prima risposta è semplice: basterebbe essere onesti. Vale a dire, l’arte non mi appartiene? Non mi appassiona? La musica l’ascolto distrattamente, giusto per intrattenermi, accendendo la radio mentre sono alla guida dell’auto e niente più? Nessun problema, non corre nessun obbligo legale in tal senso. Ognuno può liberamente determinare la natura e il grado della propria relazione con l’arte e la musica. Basta non farsi assalire da senso di colpa quando, durante una qualsiasi conversazione, qualcuno ti chiede quale musica tu ascolti e, a domanda, rispondere francamente: “niente, la musica non mi interessa”, piuttosto che: “tutta”. Peggio che mai quando, con risoluzione autopunitiva, dopo che l’interlocutore si è qualificato come musicista-appassionato di musica, il soggetto inizia a sentenziare disinvoltamente puttanate randomiche, assolutamente non richieste, a fronte di una padronanza della materia palesemente inesistente. Un po’ come se, al bancone di un bar, trovandomi a fianco un ostetrico, tra un Martini Dry e uno Campari Spritz, proponessi al malcapitato “la mia idea di parto cesareo”, impiegando fetta di arancia e oliva dei drink per mimarne la tecnica. Che cosa? La musica è di tutti? E il parto assistito forse non lo è? Vogliamo negarlo a qualcuno?
La seconda risposta, invece, si presenta con un grado di complessità decisamente maggiore, ma solo in apparenza, perché anche qui, volendo … Il fatto è che, in qualsiasi campo dello scibile umano, le competenze non sono assegnate in dote alla nascita, ma vengono acquisite nel corso della vita con il lavoro, lo studio e l’esperienza sul campo. L’arte e la musica non fanno eccezione, anche se è vero che si può nascere (o meglio diventare molto presto) più o meno predisposti alla materia, cosa che però, a ben vedere, vale anche per la matematica, il podismo e la truffa. Tutto il resto riguarda la sedimentazione di informazioni e la capacità di gestirle nel migliore dei modi, attraverso lo sviluppo di una sensibilità specificamente indirizzata allo scopo. Insomma, per “sapere” tocca lavorarci e faticare. È legittimo dunque chiedersi: “Per quale ragione dovrei sudare le proverbiali sette camicie? Chi o cosa me lo fa fare di sacrificare a questo fine buona parte del mio tempo, delle mie energie, della mia vita?”. La risposta è semplicemente: l’amore. L’unico segno al quale si può risponde senza interrogarsi, certi che seguirlo ci renderà più felici, quello e nient’altro. L’esperienza dell’amore per la musica porta inevitabilmente alla sua conoscenza, non importa come e quanto, perché se è autentico, sentito, appassionato, i modi e le quantità non contano, ma la qualità complessiva, con il tempo, è certo, non può che crescere. Il fine di questo abbraccio è goderne a pieno, e questo è quello che non bisogna mai dimenticare, ma tra gli effetti di minor importanza c’è anche quello di evitare, in tutta naturalezza, il rischio di utilizzare forme inappropriate, fino a risultare offensive, per descrivere l’oggetto del proprio amore.
Quella dell’amore per la musica non è come la chiamata alle armi, chi non risponde non è accusato di diserzione e non rischia di essere fucilato seduta stante. Quindi perché voler per forza “dire la propria” anche quando a mancare sono le più elementari nozioni, oltreché i minimi strumenti critici necessari per farlo. Forse in base allo stesso principio per il quale, durante i mondiali di calcio, il Bar Sport di ogni città si popola di espertissimi tecnici che, se solo fossero ascoltati, potrebbero risollevare in un attimo le sorti della propria nazionale? Del resto, come esistono taluni, sempre pronti ad autoreferenziarsi playboy di lungo corso, pur non essendo mai stati avvistati in compagnia femminile, possono anche esisterne talaltri, intenti a sdottorare da musicologi, finendo invariabilmente per assegnare palme e primati improbabili ad altrettanto improponibili fossili, a zero cognizione di causa. Per non dire di quando i casi della vita decidono che ad intercettarti sia un membro del “club 6 cazzate” in vena di interviste: “ti piacciono i Queen? Grandissimi! No? Ti piace l’elettronica? La house? No? I Depeche Mode allora?”. In quei frangenti scatta subito la fase di massimo imbarazzo e incapacità di reazione, tipo ottavo round dopo che ne hai già incassate troppe. Lo guardi negli occhi e le vedi, le scintilline di entusiasmo, non si capisce a che prò, luccicano nel vuoto pneumatico. Brrr! Meglio non pensarci …
Sì, la musica è in ogni dove, occupa ogni angolo della nostra esistenza, del giorno e della notte, del pubblico e del privato. Invade lo spazio circostante, ovunque: per strada, nei supermercati, nei centri commerciali, in metropolitana, in bus, nelle sale di attesa di stazioni, aeroporti, hotel. Ci segue con la telefonia mobile, è diffusa da televisioni, radio, web. Sarà a causa di questo carattere di onnipresenza che tutti si sentono autorizzati a parlarne senza preoccuparsi troppo di quello che stanno dicendo? Eppure tra l’udire e l’ascoltare c’è una differenza essenziale, un processo a più fasi che va dalla recezione puramente fisica, passa per la percezione attentiva e, assieme ad altri elementi contestuali, si elabora in dato estetico-culturale. Come dire che, tra la vibrazione del timpano e il dar fiato alle trombe, sparandole grosse, dovrebbero interporsi diverse stazioni intermedie. Eppure … Neppure l’effetto stritolamento-liquefazione operato sulla musica dal web, che tutto ha spazzato via, lasciandoci in attesa di un futuro sempre più lontano, è riuscito a premere il tasto “mute” su questo loop ossessivo di castronerie. Una persistenza molesta e inquietante, che evoca le teorie secondo le quali, nello scenario post conflitto atomico globale, gli scarafaggi potrebbero essere gli unici sopravvissuti del pianeta.
Arrivati a questo punto qualcuno potrebbe chiedermi: “Ma in fin dei conti, questi zotici che se ne vanno in giro a dir bestialità senza senso, al di là del fastidio epidermico, paragonabile al ronzio di un paio di zanzare o poco più, che noia possono darti?”. È vero, in fin dei conti si tratta di stupide vox populi tranquillamente ignorabili. Di più, quelle misere filastrocche le ho sentite ruminare talmente tante volte in vita mia che, alla fine, non possono neppure più sorprendermi e dopo un po’, per forza di cose, subentra l’effetto anestetico. Resta il fatto che veder coprire di letame una cosa che ami non è un bello spettacolo, e neppure veder calpestato senza ritegno il lavoro dei migliori lo è. Potrebbe andar meglio di così? Credo proprio di sì, ma diciamo che va bene ugualmente. Va bene che ci sia il basso perché altrimenti non potrebbe esistere l’alto e va bene che ad ognuno sia assegnato il ruolo che gli spetta: a noi quello degli innamorati, a loro quello della massa informe che affolla l’agorà dei cretini.
Gianluca Becuzzi