MURDER MOOD
L'omicidio nella storia della musica popolare
(Terza parte)
Si conclude, con questo terzo capitolo, la nostra indagine sul tema omicidiario nella storia della musica popolare. Nei due articoli precedenti abbiamo visto come e quanto, a partire dalla tradizione secolare della murder ballad, il tema della morte violenta si sia radicato nella cultura musicale, giungendo ad assumere, in alcuni frangenti, il carattere di ossessione monotematica. Vedi il caso della metal band statunitense Macabre, significativamente “specializzata” in serial killer e omicidi di massa. Abbiamo inoltre ricordato anche quelle biografie artistiche che si sono drammaticamente macchiate di sangue, ed esaminato come, viceversa, l’omicidio mediaticamente iconizzato, può talvolta scardinare la finestra attraverso la quale introdursi nello show biz. Questa volta però indagheremo un’area nella quale il nesso tra suono ed assassinio, più che da elementi oggettivi, è determinato da legami in origine piuttosto arbitrari, i quali tuttavia, nel tempo, si sono affermati creando suggestivamente un binomio estetico ormai inscindibile. Mi riferisco a quelle musiche, in gran parte strumentali, che sulla scorta di letteratura e cinema, tutti noi ormai percepiamo come colonna sonora ideale di un delitto. Ma procediamo con ordine …
I termini “hard boiled” e “noir” indicano, rispettivamente negli States e in Europa, uno specifico sottogenere della letteratura poliziesca, nato in USA a fine anni ’20 del secolo scorso, caratterizzato da cupe ambientazioni urbane, crimini efferati, psico-ritratti decadenti ed assenza di regole etico-morali. La differenza tra un romanzo giallo tradizionale (alla Agatha Christie, per intenderci) ed uno hard boiled, sta essenzialmente nella loro diversa idea-rappresentazione del mondo: nel primo, il caos (che si manifesta con l’atto criminale) è visto come un accidente che verrà sempre ricondotto ad ordine salvifico attraverso l’individuazione del colpevole e l’espiazione della sua colpa; nel secondo, esattamente al contrario, il caos rappresenta la regola. Qui la dicotomia tra bene e male evapora, lasciando alla nemesi finale l’incerto ruolo di elemento soggetto al fato. I romanzi dei maestri del genere: Dashiell Hammett, Mickey Spillane e sopratutto Raymond Chandler (1988-1959), creatore del celebre detective Philip Marlowe, a partire dagli anni ’40, vengono adattati a soggetti per film, creando così il corrispettivo filone cinematografico.
Il dato che a noi più interessa rilevare è che nel cinema noir (la sua golden age è collocabile in USA tra 1940 e 1959, con un occhio di riguardo per la produzione di Robert Siodmak), è quasi sempre presente un “certo tipo” di jazz, quello cioè che ben si attaglia alla fumosa atmosfera di equivoci locali notturni frequentati da personaggi solitari, seducenti quanto letali femme fatal e tutta la caratteristica umanità ubriaca di disillusione che popola queste torbide storie. In realtà “quel jazz”, in un primo momento, non viene neppure incluso nella colonna sonora originale dei film in questione, gli fa solo da sottofondo ambientale, ma ciò che veramente conta è che, alla lunga, finirà per affermarsi come topos assoluto. Il primo riconoscimento ufficiale ha luogo nel 1958, con “Ascenseur Pour L’Echafaud” (“Ascensore Per L’Inferno”) di Louis Malle, quando il jazz “a tinte nere” creato dal Miles Davis Quintet entra di diritto nell’original soundtrack della pellicola. Nel decennio successivo, l’associazione tra crime story e jazz noir si fa sempre più frequente e riconoscibile, coagulandosi così in un mood distintivo che assume la valenza definitiva di moderno archetipo sonoro. Si colloca infatti negli anni ’60 anche il vertice della celebrata produzione per cinema e TV di John Barry, autore di “James Bond Theme” e “The Persuaders Theme” (“Attenti A Quei Due” in Italia), giusto per citare due brani a tutti noti, anche se leggermente fuori focus rispetto a questa trattazione. Per avere un panorama più ampio di titoli e autori è comunque possibile rivolgersi alla divulgativa raccolta in triplo CD Jazz Noir – Menacing Masterpieces Of Mistery, Murder And Mayhem (2014) Not Now Music.
Lo spietato realismo narrativo, l’intreccio malsano tra crimine e sesso, la dimensione anti-eroica della legge e dei suoi rappresentanti, il desolato cinismo delle psicogeografie metropolitane, l’abisso patologico delle menti assassine ed il sangue reso nero dalla fotografia neo-espressionista del cinema noir-hard boiled, stringono un patto eterno con le cadenze più notturne dello swing, con le lamentazioni di trombe e sax e con quell’ordito sonoro dove indolente eleganza e avvolgente inquietudine formano un tutt’uno con i destini di un’umanità perdente. Con l’avvento del neo-noir degli anni ’70, l’alleanza con il jazz si rinsalda in capolavori come: “Chinatown” (1975) di Roman Polanski, con musiche di Jerry Goldsmith, o l’indimenticabile “Taxi Driver” (1976), capolavoro di Martin Scorsese con soundtrack composta da Bernard Herrmann. Grazie anche ad una nuova generazione di romanzieri fioriti un po’ ovunque: Ed McBain (New York), James Ellroy (Los Angeles), Jean-Claude Izzo (Marsiglia), letteratura e cinematografia noir, rinnovati, arrivano di slancio fino ai giorni nostri. Ma quello che maggiormente ci preme sottolineare è che, a partire dagli anni ’80, il processo di penetrazione del sound noir nell’immaginario collettivo, giunge ad un grado di identità-evidenza tale da esser proiettato fuori dalle colonne sonore cinematografiche per affermarsi come soggetto artistico discograficamente indipendente. Vale a dire, alcuni compositori-band iniziano ad assumere come propri i caratteri stilistici del noir, sia in termini sonori che iconografici, ponendoli di fatto, senza intermediazione, all’interno della musica pop tout court.
L’omonimo debutto di Lounge Lizards (1981), pesca tanto dal jazz cinematico (il sax di John Lurie), quanto dalle ceneri ancora calde della no wave newyorkese (la chitarra di Arto Lindsey), mentre, dall’altra parte dell’Atlantico, i Clock DVA di Adi Newton, scuriscono i toni della grey area con i fiati noir di Thirst (1981) e sopratutto con il conturbante jazz-funk di Advantage (1983). Ancora più complessa l’alchimia tra avant-minimalismo e ombrosi groove jazzistici sulla quale si basa la longevità artistica degli australiani The Necks, i quali esordiscono, come meglio non si potrebbe, con Sex nel 1989. È dello stesso anno anche Moss Side Story di Barry Adamson (già Magazine, Visage e Bad Seeds), prima prova solista di una fortunata serie di album fittamente costellati di citazioni noir. Da avere assolutamente il suo As Above To Below (1998). Ma l’autentico marchio a fuoco del noir anni ’80 viene impresso dal sodalizio tra David Lynch e Angelo Badalamenti con l’OST di Blue Velvet (1986). L’estetica lynchiana merita sicuramente ben più di poche misere righe, ma qui ci limiteremo semplicemente a dire che da “Twin Peaks” (1990) e “Fire Walk With Me” (1992) a “Mulholland Drive” (2008), il cinema di Lynch e le musiche di Badalamenti riformulano il vocabolario del noir, ridisegnando alcuni tratti essenziali del suo profilo. L’opera geniale dei due e i loro diretti derivati discografici (gli album di Julee Cruise e quelli solisti di Lynch stesso, in primis) stabiliscono un precedente inelubile per chiunque, da lì in poi, voglia confrontarsi con la materia in questione.
Come la nebbia notturna di certi set cinematografici, nel corso degli anni ’90, il murder mood avvolge tra le sue spire svariati generi musicali. Lo si può trovare nella bassa battuta del trip hop, un esempio su tutti, il secondo omonimo album rilasciato dai Portishead nel 1997 e il successivo Roseland NYC Live (1998), registrazione di un concerto con tanto di orchestra. Così come c’è del neo-noir-hi tech in tanti prodotti drum’n’bass, ma dovendo trattare solo d’eccellenza assoluta è appropriato puntare sullo stilosissimo Modus Operandi (1997) del brillante Photek. Di classe superiore e grande suggestione sono inoltre le composizioni per tromba ed elettronica dei Supersilent, in attività dal 1999. E, anche senza dover affrontare la mastodontica discografia di John Zorn, non si può escludere che il suo avant-sax, tra i tanti cimenti stilistici, vanti anche quello con l’hard boiled. Ma tra tutte, la sigla più rilevante, ai fini di questa analisi, è sicuramente quella di Bohren & Der Club Of Gore. Quartetto fondato nel 1992 da musicisti formatisi in contesti metal e hardcore a Mülheim An Der Ruhr, Germania, la musica di Bohren & Der Club Of Gore è la summa perfetta dell’enunciato noir-hard boiled, per come l’abbiamo fin qui tratteggiato, dalle origini ai suoi successivi sviluppi. Nella loro musica il jazz notturno del primo cinema noir si fonde con gli ossessivi psicodrammi lynchiani, producendo un rallentamento parossistico del ritmo che conferisce all’insieme aspetto spettrale e dilatazione percettiva di sicuro effetto. Il termine, assolutamente calzante, coniato per descrivere questo loro sound è doom jazz.
Doom jazz, o anche dark jazz e funeral jazz, da alcuni anni a questa parte, sono termini entrati nell’uso corrente per descrivere una nuova categoria stilistica improntata all’estetica del noir-hard boiled in musica. Insomma, pare che Bohren & Der Club Of Gore abbiano gettato un seme che, sopratutto in Europa, ha dato alcuni significativi frutti. Ad oggi sono infatti rubricate sotto la voce doom-dark jazz diverse formazioni come: The Kilimanjaro Darkjazz Ensemble, gli stessi che in versione live-impro si fanno chiamare The Mount Fuji Dommjazz Corporation, i francesi Dale Cooper Quartet & The Dictaphones, con denominazione-omaggio al protagonista di Twin Peaks e il romano Adriano Vincenti, in arte Macelleria Mobile Di Mezzanotte o più sinteticamente MMM. Una menzione speciale la meritano inoltre Fire! Orchestra, del “capitano di lungo corso” Mats Gustafsson, tre album di straordinaria potenza ipnotica pubblicati nel biennio 2013-2014, e Heroin In Your Veins, ingiustamente misconosciuto solo-project del finlandese Janne Perttula, una sorta di John Barry versione ultra-tenebrosa. Tutte musiche che nel loro eclettico citazionismo transgenerazionale riescono a mettere insieme: Duke Ellington, Henry Mancini, Miles Davis, Angelo Badalamenti, elettroniche ambient, decelerazioni doom, oscurità dark e rumorismi assortiti. Un melting pot algido e cerebrale, non certo adatto a soddisfare i gusti reazionari del jazzofilo standard. Questo giusto per rendere conto dell’essenziale e mettere in guardia chi di dovere.
Come chiosa di questo e dei precedenti due articoli correlati, non resta che ribadire il medesimo concetto, ovvero … Come da regola della catarsi, il dramma messo in scena dall’arte, nel nostro caso l’omicidio in musica, ha il potere di allentare le tensioni del vissuto quotidiano. Rappresentare il lato oscuro, rimosso, traumatico dell’esistenza favorisce processi di accettazione rispetto alla natura umana e ai suoi destini. Caino è, ad un tempo, il primo assassino della storia e anche il fondatore della prima città. Come dire che l’omicidio è un effetto inevitabile di quel patto collettivo che chiamiamo civiltà. Decidere di fare esperienza della tragedia attraverso la sua rappresentazione, prima che sia la tragedia stessa a presentarsi per via diretta, è sicuramente una scelta che denota saggezza. A chi invece, preferisce sottrarsi a questi processi, non resta che fare la propria esperienza pre-mortem “con la pancia”, imbarcandosi a bordo di un ottovolante di un luna park allestito alla periferia della coscienza.
Gianluca Becuzzi