POP. 1280
"Paradise"
(Sacred Bones Recordings, 2016)

Pop. 1280Un miasma indiavolato, zolfato, si aggira dalle parti della New York dei bassifondi dall’anima selvaggia, quasi Lovercraftiana. Non guardatevi alle spalle, sono inafferrabili. I Pop. 1280 tornano a destabilizzare gli ascolti con il nuovo disco, Paradise (eufemismo), un viatico sofferto e lancinante che nel giro di nove tracciati electro-industrial imprimono nelle tempie ossessioni, deliri e destroyer thing come febbri inguaribili.

Una musica – la loro – devozionale a figure come Cabaret Voltaire, Big Black, The Jesus Lizard, ma anche un forte accento post-punk che li porta in territori minimalisti, dalle torbide tinte dark Paradise, Rain Song, The Last Undertaker, tutti riferimenti sintetici che istigano la formazione americana ad esaltarsi all’altare della dissacrazione totale, alla non forma canzone che va ad incendiare la nuova scena “off” underground internazionale.

Punto di forza sintetizzatori a palla e voce claustrofobica, credenziali uniche che specialmente nella Pattoniana Phantom Freighter, nella aliena/robotica marcia di Chromidia o dentro i meccanismi perversi di USS ISS, donano pressing e suggestioni day after da qualsiasi angolazione sonica li si ascoltino. Forse un neo si può grassettare, la troppa “volumetria quadrata” che alla fine a neofiti potrebbe deragliare nell’odiosa serialità, ma che comunque – per aficionados del genere – è e rimane succulenza divinamente maledetta.

Max Sannella