PIERRE & BASTIEN
"Que Du Bonheur"
(Polly Maggoo, 2015)
Tre volti che si riflettono nei frammenti di uno specchio spaccato la dice lunga sui contenuti di questo secondo album a firma Pierre & Bastien, una vecchia conoscenza parigina ormai, gravitante nell’orbita di quel filone punk dal timido taglio garage condotto da una presenza essenziale dei synth, apparso in terra francese dieci anni or sono. Non a caso la veterana Polly Maggoo, che ha fortemente contribuito alla causa, non se li è lasciati sfuggire, dando alle stampe, lo scorso aprile, Que Du Bonheur, a 6 anni di distanza da un bellissimo esordio nel breve formato in soli 300 esemplari, all’insegna di un synth-punk scarno ed abrasivo (come i padri conterranei Metal Urbain insegnano) scandito da una ritmica elettronica. Non si sa cosa abbia dato spunto alla band nella scelta del nome, l’ipotesi più accreditata pare sia quella di un omaggio al compositore e polistrumentista Pierre Bastien, anch’egli francese, eccentrico sperimentatore di insoliti macchinari sonori, reduce lo scorso mese, tra le altre cose, da una manciata di concerti nel nostro paese.
Negli otto brani che compongono l’album dei synth questa volta non vi è traccia alcuna così come pure della drum machine (al duo esordiente Paul Jimenes / Baptiste Nollet si è unito nel frattempo il batterista Fred Trux). La loro spina dorsale è un (post)punk(‘n’roll) dal potente impatto, a volte “goliardico” con piacevoli venature pop altre nervoso, cattivo, decadente ed oscuro in una mistura dove le varie componenti serpeggiano furtivamente. Le puntatine verso svisate rock’n’roll incisive ed irruenti di Race come pure di Plus Que Les Chiens, dove aleggia lo spettro dei Ramones, le struggenze Interpol di Graisse De Phoque e Sentiments, le taglienti sferragliate di Handicapé o anche le cadenze post-punk tese e nervose di Femme, la più articolata e forse la più bella del lotto, sono solo una parte delle “emozioni” in cui potrete imbattervi. Emozioni cantate rigorosamente in lingua madre per spaccati rabbiosi di vita quotidiana tra le cui righe trasuda tutto il marcio di questa generazione.
Que Du Bonheur pertanto supera decisamente la formula lo-fi degli esordi proponendo un suono fottutamente trascinante che riporta spesso alla memoria dei Lovesores (li ricordate?) riletti in chiave Ramones o addirittura un Buck Biloxi via Interpol. Ennesima conferma dello stato di grazia in cui versa, da una decade ormai, il rock francese targato “punk e dintorni”.
Salvatore Lobosco