THE ASTRONAUTS
"Peter Pan Hits The Suburbs"
(A Bugle Record / Genius, 1981 – La Vida Es Un Mus Discos, 2011)
Notevole il recupero, effettuato qualche anno fa dalla londinese La Vida Es Un Mus Discos, di questo autentico gioiello uscito nel 1981 sotto la sigla The Astronauts, gruppo inglese divenuto leggendario grazie ad una carrellata di album ed EP che, all’epoca, lasciarono decisamente il segno. Era l’anno di grazia 1977 quando la band venne messa su da Mark Astronaut in quel di Welwyn Garden City dove mosse i suoi primi passi prima di trasferirsi nella capitale ed intrufolarsi nel filone anarcho punk (erano soliti aprire i concerti degli Zounds e dei The Mob oltre che assidui frequentatori dei festival organizzati dalla Fuck Off Records, nota cassette label di materiale oscurissimo). Peter Pan Hits The Suburbs venne stranamente acclamato da quella stessa critica che per anni aveva ignorato le loro precedenti produzioni mentre fece storcere il naso ai fan, principalmente punk, per le sue incursioni nella musica folk, nel pop e nella psichedelia cosmica oltre che per i decisi richiami all’industrial e all’elettronica sperimentale. Un marasma di stili insomma, un “crossover” di rara bellezza che lo rendono incatalogabile e distante anni luce dalla classica produzione musicale del tempo. Sette i membri (la band è stata oggetto di numerose cambi di line up) che si muovono dietro la variegata strumentazione: chitarra, basso, batteria, synth, violini, flauti, tastiere e sax (all’album partecipa anche il grande jazzista inglese Lol Coxhill).
L’album si apre con una nervosa e scarna Everything Stops For Baby dal mood post-punk (Sounds, Crass) contaminato da inserti di sax ed effetti elettronici. Segue una spiazzante ballata, Protest Song, dai connotati glam/prog cosmici (Bowie/Pink Floyd/Hawkwind) che nel bel mezzo si lascia andare ad un viaggio acido terrorifico a colpi di piano, flauti e violini per poi ritornare a battere i sentieri melodici di partenza. La predilezione della band per magre e scheletriche incursioni elettroniche, sono il punto di forza delle successive Sod Us, The Traveller e How Green Was My Valley, la prima dall’incedere saltellante che riporta alla memoria i Devo, le restanti dagli spunti proto punk decisamente Debris. Il lato b, sebbene la prima traccia (Still Talking) si muova lungo sentieri dal grigiume Pere Ubu/Chrome (questi ricorrono spesso seppur in brevi passaggi) resuscitando addirittura lo spettro di Manzarek a mezzo svisate di tastiere, vira più verso il folk e a sprazzi verso la psichedelia, dapprima nella fiabesca Baby Sings Folk Songs, con tanto di flauti ad effondere scenari giullareschi e poi, aumentando il passo, nei 77 secondi psycho(patici), dissonanti e allucinati di How Long Is A Piece Of String, nella tesa ed inquieta Amplified World che si lascia andare, sul finale, ad un viaggio acido accompagnato da un sax notturno e, per concludere, negli evocativi dialoghi tra violino e acustica di Midsummer Lullaby, una ballata folk di rara intensità. A chiudere il cerchio le notevoli doti narrative del leader ideatore di vere e proprie poesie di protesta.
Per il sottoscritto, uno degli album più belli degli anni ’80!
Salvatore Lobosco