EGO SUMMIT
"The Room Isn't Big Enough"
(Old Age / No Age, 1997 – 540, 2013)

Ego SummitÈ dello scorso anno la riesumazione di questo The Room Isn’t Big Enough a nome Ego Summit, grazie all’americana 540 Records che nel marasma del lo-fi punk blues dei ’90 è andata a pescare uno degli album più belli ed intensi. Gli Ego Summit erano cinque veterani della scena di Columbus (Ohio) che un bel giorno, spinti dal semplice e puro istinto alla classica strimpellata tra vecchi amici, decidono di riunirsi nel granaio di casa di Jay (uno dei membri), in un sobborgo rurale di Harrisburg, per fissare su nastro un pugno di brani. Don Howland (Bassholes, Gibson Bros), Jim Shepard (Vertical Slit, V-3), Ron House (Great Plains), Tommy Jay (True Believers, Mike Rep And The Quotas) e Mike Rep (Mike Rep And The Quotas) sono probabilmente nomi che non vi diranno nulla così come pure le sigle citate accanto ai loro nomi, resta il fatto che ognuna di esse, chi da tempo immemore, chi in un passato più immediato, ha dato un notevole contributo all’evoluzione del rock più sporco e sanguigno di ispirazione folk-blues dal quale non pochi hanno attinto. L’album, uscito nel 1997 per la Old Age / No Age di Rep, che aveva fino a quel momento pubblicato solo cassette, missato da Jerry Wick dei Gaunt, contiene 13 brani ognuno dei quali partorito da una singola mente del gruppo.

Fin dai primi assaggi si resta impigliati in una rete melodica intima e profonda di sonorità folk “rustiche” in bassa fedeltà, tra blues decadenti (Beyond The Laws), “arcaici” richiami Pavement (IllogicalAmerican Dream) e affondi acustici a volte “apocalittici”. Prosegue l’incursione nella piaga di un blues puramente lo-fi con rimandi a Birthday Party e Cramps in Rise Sherry e Gories in Queen Of Underground. Si cambia lato ed anche registro, il contesto “storico” resta per un po’ ancora lo stesso, pur voltando l’asse cromatico verso il “bianco”, con due cavalcate country da antologia (Floyd CollinsWe Got It All) la prima delle quali riesuma Johnny Cash mentre la seconda ancora una volta degli “improbabili” Pavement. Le distanze temporali nel mare magnum del folk si accorciano in Half Off che va a scomodare addirittura il menestrello degli esordi mentre chiudono il cerchio due dimostrazioni di stile, un lo-fi punk velenoso e graffiante tra Oblivians e Lost Sounds (Black Hole) e addirittura un omaggio alla Germania dei primi ’70 con uno strumentale, tra Can e Kraftwerk, da brivido (Small Piece Of Germany).

Una massa di stupratori sonici che in una rara congiunzione astrale si sono trovati un bel giorno ad incrociare i propri strumenti per mettere a nudo l’anima del rock, mediante un mosaico di suoni che si erano persi nella notte dei tempi, rappresenta un passaggio obbligato per chiunque ami, come il sottoscritto, lo sporco revival del blues che i magici ’90 ci ha regalato.

Salvatore Lobosco