THIS HEAT
“S/T”
(Piano Records, 1979)
Immaginiamo di trovarci in un piazzale dove convergono due strade, la prima proveniente da sinistra e la seconda che inizia alla destra della piazza; nel bel mezzo di questo piazzale c’è una colonna scolpita, a guisa di totem, con due facce che, come un Giano bifronte, guardano verso entrambe le strade. Sotto il totem esiste un cunicolo che collega la base del suddetto con una strada sotterranea senza soluzione di continuità, sovrastata da un’oscura volta in mattoni, come una galleria nel sottosuolo. La strada a sinistra, confluente nella piazza è il passato pre-punk 1977, quello che Clash e Sex Pistols hanno voluto seppellire, mentre la strada che parte dalla piazza e prende a destra è il post-punk. Il prima e il dopo culminano al centro della piazza e il loro fulcro è questo totem double-face che guarda verso entrambe le strade. Chi è il totem? È una realtà musicale atipica che prende il nome di This Heat. Mentre la galleria sotterranea è il loro sound.
I This Heat sono stati una formazione inglese a cavallo fra gli anni ’70 e ’80 che definire outsider è corretto, ma non nel senso che erano divergenti al pensiero dominante, ma che tale pensiero lo superavano a mancina per andare oltre e percorrere in futuro vent’anni di ricerca musicale. Erano tutt’altro che degli sballati come poteva esserlo un David Peel, oppure deviati sotto tonnellate di acido alla maniera di un Roky Erickson; i This Heat erano un trio di intellettuali votati all’avanguardia e alla ricerca sonora, in particolare quella elettronica e concreta. Il trio era composto da Gareth Williams, proprietario di un negozio di dischi e profondo conoscitore dei rivoli sotterranei dell’underground, l’uomo che portò nel trio la sua conoscenza enciclopedica; il secondo componente è Charles Bullen, il chitarrista proveniente dall’ambito della musica contemporanea; il terzo membro è Charles Hayward, batterista di estrazione jazz, proveniente dal Canterbury Sound (Quiet Sun). Come inquadrare il sound dei This Heat? Non si può inquadrare. La maniera più efficace per descrivere il loro sound è rifarsi alla metafora del totem al centro del piazzale cui mi riferivo all’inizio: i This Heat sono un Giano Bifronte.
Da una parte guardano al passato prima del punk creando un trait-d’union con quel prog che i punk rockers tanto disprezzavano; ma più che al prog inglese di Genesis ed ELP guardavano alle sue branche più laterali e sperimentali: il Canterbury Sound e il krautrock tedesco. Dall’altra parte mutuavano l’estetica iconologica del punk con un suono che si avvicinava al do it yourself, al rifiuto di voli pindarici in favore di un atteggiamento realista, a un nuovo modo di intendere la sperimentazione, lontano da sofismi e velleità intellettualoidi; avevano un approccio intellettuale ma filtrato da un’etica punk rock. Ed ecco che passato prog e presente post-punk confluiscono a illuminare il totem, e cotesto sprigiona un fascio di energia per convogliarla verso una galleria sotterranea; tale galleria rappresenta il sound This Heat: mentre in superficie ci sono due strade – prog e post-punk – che si guardano in cagnesco, ecco che alla loro confluenza sorge un totem a guisa di Giano Bifronte che, guardando nell’una e nell’altra direzione, ci conduce in un rivolo sotterraneo dove passato e presente non fanno a cazzotti ma creano una continuità, mescolandosi nel sottobosco underground e sono artefici di un suono laterale e oscuro che vibra di pulsante energia nelle viscere della terra.
Nella poiesis musicale dei This Heat convergono il Canterbury Sound, il krautrock più oscuro, le atmosfere plumbee dell’industrial music, la new wave più laterale, l’elettronica minimalista alla Riley e La Monte Young, il rumorismo e l’attitudine concreta. E hanno già prefigurato tutti gli anni ’90: dal post-rock all’elettronica sperimentale di Autechre e Aphex Twin, all’estetica lo-fi. Sono stati una meteora i This Heat, hanno prodotto solo due dischi: questo omonimo S/T del 1979 e Deceit, l’altro capolavoro del 1981. Ma una meteora che ha rivoluzionato le regole del gioco della sperimentazione sonora. S/T è il primo album. Esce nel 1979, in un anno ormai dominato dal post-punk, e subito si impone con la sua anarchica e sovversiva miscela sonoro nel calderone dell’underground britannico. La copertina è di due colori: blu e gialla, un’estetica minimale che lascia poco spazio all’immaginazione per giungere al quid: rappresentare il concetto di concreto in musica, sia in ambito iconografico, con suoni ricercati ma scarni, rumoristici, e trovati per strada allo stesso tempo, sia in ambito iconologico, nel senso di una cruda rappresentazione dell’angoscia e dell’alienazione nichilista di una società giunta al capolinea terminale dal punto di vista dei suoi valori.
Ora l’analisi brano per brano:
Testcard (Blue)
Un’ouverture a base di elettronica minimale sulla falsariga dei grandi maestri del minimalismo novecentesco (Reich, Riley, La Monte Young).
Horizontal Hold
Senza soluzione di continuità all’intro si attacca questa autentica destrutturazione sonora creata con la tecnica del cut-up e dell’overdubbing, il taglia e cuci e la sovraincisione. Il risultato è un brano destrutturato con continui cambi di registro che incede con ritmo marziale. Tra scampoli di free-jazz, chitarra funky scarna e scorticata alla maniera no-wave, colpi e battiti metallici, rumorismi, tempi dispari, suoni dissonanti. È come se fosse la rappresentazione di una marcia funebre sulla macerie di un mondo in disfacimento che sta cadendo a pezzi.
Not Waving
Su note di elettronica minimale si svolge questo brano che rimanda a solitudini urbane spettrali in bianco e nero e vi trova spazio anche un languido cantato con un velo di angoscia, come una sorta di Robert Wyatt calato nella solitudine esistenziale di chi ha smarrito la via. Il cantato è reso ancora più lugubre da battiti metallici e volute darkeggianti di elettronica che tra chiari e scuri rimandano a una sorta di litania da spleen post-industriale.
Water
Colpi metallici nel vuoto pari a campane orientali. Rumorismi concreti di suoni trovati si perdono nell’oscurità e sordi colpi di tamburo aprono a un’inquietante loop elettronico dai toni apocalittici.
Twilight Furniture
Un brano che ha una parvenza di struttura armonica in mezzo a tanta destrutturata disarmonia. Su un tappeto percussivo poche note di chitarra riecheggiano a guisa di rintocchi di campana mentre un flebile cantato, che pare provenire da una dimensione aliena, declama una litania come una sorta di sermone profetico per un’orgia di anime perse.
24 Track Loop
Forse il brano più alieno del lotto. Nervosi battiti e aspre loop di elettronica industriale abrasiva che prefigurano gli Autechre. Il brano procede con forti vibrazioni di elettronica che rimandano a lamiere metalliche oscillanti sotto colpi continui e ci calano in un incubo post industriale. Brano di una fortissima carica espressiva, che precorreva tempi e si libra in un’angosciante danza fra il krautrock, quello più minimale e alieno, e l’industrial; fra le pieghe scampoli di free jazz canterburiano. Fino a quando tutto deflagra in solenni flutti elettronici e in un sibilo minimalista. Potremmo definire questo pezzo un ibrido fra Henry Cow, Neu! e Cabaret Voltaire.
Diet of Worms
Questo pezzo è all’insegna del loop elettronico minimale, che si modula in cupe dissonanze e sibili che rievocano malati fumi di smog in paesaggi alienanti di fabbriche fumose.
Music Like Escaping Gas
Come una sorta di cupio dissolvi, l’atmosfera malata del brano precedente si scioglie in questa sorta di catarsi misticheggiante dove dilatati rintocchi di chitarra su un tessuto elettronico darkeggiante aprono a un cantato che è quasi un rantolo proveniente dall’oltretomba.
Rainforest
Una tempesta di rumorismo e dissonanze noise aggredisce le orecchie nella più pura arte improvvisativa che rimanda agli AMM, però con derive cosmiche in salsa krauta.
The Fall Of Saigon
La marcia delle armate del Nulla. Questo solenne e marziale mantra orientaleggiante è l’inno terminale che, con un mesto cantato corale, lancia le sue invettive contro tutto il sistema, politico, economico, sociale. È il nichilismo punk che qui prende la strada verso una dimensione ultraterrena e, come un quadro metafisico di De Chirico, rappresenta, coi colori di un lento clangore metallico e note malate di chitarra agonizzante, le prospettive di un paesaggio dominato da macerie a seguito della Caduta di Saigon che metaforicamente diventa Babilonia; i residui di ciò che eravamo e di ciò che siamo diventati grazie alle perversioni del potere.
Testcard (Yellow)
Un’altra dissolvenza in questo epilogo che riprende l’ouverture iniziale con la veste del giallo al posto del blu, i due colori della copertina.
Marco Fanciulli
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