JOHN CALE
“POPtical Illusion”
(Double Six Records / Domino, 2024)

Facciamo un gioco. Elenchiamo tutti i nomi di artisti ultra ottantenni che vincono ancora in determinazione e attività artistica febbrile. Sicuramente vengono in mente Roger Waters, sir Paul McCartney, Bob Dylan, illustri nomi “mainstream” di chi produce dischi, avvia progetti e si avventura in sfibranti tour mondiali, malgrado l’età. Ecco, ci sentiamo di inserire fra questi nomi sicuramente anche John Cale. Volendo dare una definizione di questo artista potremmo tranquillamente definirlo colui che ha reso il rock un genere di sperimentazione e avanguardia. Innumerevoli sono le collaborazioni, in primis quei Velvet Underground che hanno tracciato una rinascita sonora oltre i confini del già scritto e suonato. Le sperimentazioni classiche, e l’uso non convenzionale dei suoi strumenti (come la viola su cui montava corde di chitarra), con Cale, superano le convenzioni e apportano nuova linfa. Non basterebbe un libro poi per elencare tutte le sue epiche produzioni e dischi a cui ha contribuito. Si va dai Modern Lovers agli Sham 69, il capolavoro Horses di Patti Smith e il primo, monolitico, album degli Stooges. Per non parlare poi della sua produzione che si avvia ai sessant’0anni di attività. Lavori di sperimentazione e canzoni: se proprio volete cominciare a conoscerli Music For A New Society è un’ottimo inizio, l’album dove Cale crea definitivamente il suo suono, lo caratterizza e lo modella come una scultura.

Ma veniamo al 2024: Cale è vivo e lotta insieme a noi. Se nel precedente Mercy l’artista tirava fuori dal cilindro vecchi fantasmi del passato, questo nuovo Poptical Illusion sembra pervaso di positività. Testi che denotano uno stato contemplativo più che di frustrazione. “Fai in modo che accada per te nel futuro / È una vita migliore rispetto al tuo passato”, canta in Davies And Wales, riflettendo: “Ed evita tutti gli errori che abbiamo fatto quando eravamo più giovani, non ci interessa chi abbiamo ferito durante la salita”. In generale, in tutto il disco, permane un’atmosfera giocosa immersa in sonorità hip hop con synth spesso in evidenza. Ma la “scorza dura” del passato importante viene fuori in brani come Shark Shark. La saggezza umana traspare nel testo di How We See The Light, racconto di un amore finito e della forza di ricominciare con nuovi stimoli, sostenuto da un ritornello dannatamente catchy.

In Company Commander, Cale sembra premonizzare l’egemonia della destra nella politica internazionale, una traccia simile al sentimento di Mercy: “Gli esponenti della destra bruciano le loro biblioteche / Dandoci i benefici e il dubbio/ Dove abbiamo perso il controllo delle cose / Era domenica quando il circo arrivò in città?”. Edge of Reason è riflessivo e triste, anche se questa volta senza senso di rabbia: solo dolore, misto a meraviglia, per il passare del tempo e la stranezza delle persone. Il pianoforte delicato ancorato al basso d’organo e un alone di sintetizzatore confuso, e la voce inimitabile di Cale che incarna ogni piccola parte della sua esperienza.

Come il precedente Mercy anche questo disco è frutto delle circa 80 canzoni che John Cale ha creato durante il periodo della pandemia. Nella speranza che non sia il suo epitaffio siamo ancora meravigliati dalla profondità di questa icona della musica popolare capace di lasciare (ancora) la sua impronta immortale e quei suoni, quel caravanserraglio di synth, piano e chitarre acide che emergono, a volte, lasciando una scia di inquietudine. Signori, John Cale ci ha stupito ancora una volta.

Beppe Ardito

 

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