Il post rock divergente dei ROME
“Rome”
(Thrill Jockey Rec., 1996)

Il Post Rock anni ’90

Il post-rock è stata l’ultima grande rivoluzione del rock alla fine del secolo scorso. È riduttivo definirlo un genere perché le sue molteplici sfaccettature rendono difficoltosi i tentativi di conchiudere una musica così sfuggente in steccati e recinti. Diciamo che il post-rock è stata un’attitudine, ma non un’attitudine prima (sub) culturale e poi musicale con poca devozione verso la tecnica quale lo fu il punk, piuttosto l’esatto opposto: un’attitudine musicale attenta alla tecnica e alla creatività prima di tutto, la quale ha generato un movimento sottoculturale in un secondo tempo. Il post-rock è stato l’ultimo tentativo di andare oltre i confini di quella materia musicale che prende il nome di rock con l’intento di allargarne lo spettro creativo e le potenzialità espressive. Se vogliamo fare un parallelismo il post-rock può essere associato concettualmente al prog della prima metà degli anni ’70. Anche il prog, genere figlio in tutto e per tutto della rivoluzione psichedelica degli anni ’60, si è imposto come volontà di uscire dalle radici afroamericane del rock per allargarne il campo, adottando linguaggi presi dalla musica classica e sinfonica, utilizzo dei tempi dispari nella batteria, testi votati al mondo favolistico, aperture verso il free-jazz, la contemporanea e i primi esperimenti con l’elettronica. Il post-rock può essere considerato un figlio sia del prog sia della new wave. Dal prog ha mutuato certe atmosfere orchestrali, la batteria in tempi dispari e più genericamente l’utilizzo di brani lunghi e dilatati secondo i dettami della suite, le circonvoluzioni jazz. Dalla new wave ha assimilato un certo algido intellettualismo accompagnato ad asciutte partiture e il lavoro di sperimentazione sulla chitarra. Ma se le premesse sono negli anni ’70 il post-rock è una cultura musicale in tutto e per tutto legata agli anni ’90, alle incognite di fine millennio e al senso di disorientamento che è sorto dall’inconscio collettivo delle masse occidentali dopo la caduta del muro di Berlino.

Se noi ascoltiamo le band legate a un discorso più prettamente chitarristico nel post-rock, compagini come i Tortoise, i Don Caballero o i June Of 44, notiamo che dietro a un apparente tecnicismo, una ricerca stilistica di soluzioni che spaziano da influenze prog fino al post-punk, si nota un senso di smarrimento fra le righe, il quale si realizza mediante un disequilibrio di pause controllate di riflessione e fughe nervose, momenti di calma ponderata e ossessivi battiti di schizofrenia, silenzi sospesi e ritorni a un caos dissonante e rumorista, placidi sperimentalismi prog e costipazione post-punk, apollinei Robert Fripp e dionisiaci Sonic Youth. E qui ho menzionato solo 3 esempi fra i tanti. In linea di massima il post-rock è sì debitore al prog e alla new wave, ma è un prodotto dell’humus socio-culturale degli anni ’90 del secolo scorso. È diverso sia dalla foga creativa del prog successiva al crollo dell’utopia hippie, sia dall’alienazione metropolitana della new wave succeduta al meglio della rivoluzione punk. L’alienazione si è trasformata in smarrimento, uno smarrimento che è conseguenza del crollo delle ultime certezze. E chi si sente perso vive in una situazione di bilico: da una parte vi è il bisogno di ancorarsi a determinate sicurezze, per quanto esse possano dimostrarsi efficaci, e dall’altro vi è la sensazione del crollo delle certezze cui fa seguito l’amaro calice della depressione che si traduce in fughe nervose verso il buio o in ripiegamenti su se stessi. Il post-rock, con la sua doppia faccia di musica ponderata e riflessiva da un lato e di fughe verso ossessioni e taglienti e nervose asperità, è la traduzione in musica del senso di smarrimento di questa generazione di fine millennio, la quale non trova più solide certezze cui votarsi, ma un senso di vuoto e di abbandono. Ed ecco perché troviamo momenti di apparente serenità nelle costruzioni chitarristiche che rasentano la perfezione formale (Robert Fripp) accanto a violente schitarrate noise e costipazione post-punk (Sonic Youth, Killing Joke, ma anche PIL e Glenn Branca). Se vogliamo citare una formazione che può costituire i prodromi del post-rock questa sono i Talk Talk. Con i due capolavori “Spirit Of Eden” e “Laughing Stock” i Talk Talk hanno già definito le linee del post-rock perché hanno operato un ribaltamento delle strutture armoniche del pop in favore di un nuovo lessico espressivo che è il superamento stesso di quelle strutture.

Però bisogna sottolineare che quella dei Talk Talk non è stata un’operazione di destrutturazione, di scompaginazione delle architetture pop, cadremmo in errore se pensassimo a questo, ma una ristrutturazione: un nuovo lessico avanguardistico che è il risultato di una riformulazione delle regole pop, per allargare i confini di quest’ultimo verso inedite forme musicali fatte di fisiologici slanci emotivi e rarefazioni ai limiti del mistico, ora sospeso nel vuoto, ora abbandonato a fughe di impeto. “Spirit Of Eden” e soprattutto “Laughing Stock” sono già 2 album post-rock fatto e finito quando ancora non si parlava di post-rock (siamo nel periodo 1988-1991), e i Talk Talk rientrano di diritto fra i progenitori di questa corrente musicale. La band che ha battezzato la nascita del post-rock sono unanimemente riconosciuti essere gli Slint. Se i Talk Talk sono stati i precursori gli Slint assurgono al rango di progenitori (accanto alla loro band madre Squirrel Bait, se vogliamo essere larghi) della corrente post-rock. Le radici degli Slint non stanno nel pop come i Talk Talk ma nell’hardcore-punk. Dopo l’inizio degli anni ’80 sono tante le band che hanno cercato di superare gli angusti limiti dell’hardcore, citiamo solo i Sonic Youth e l’abbrivio del genere noise, e band innovative come Hüsker Dü e Minutemen. Sul versante meno sperimentale c’era il grunge di Seattle che creava una commistione fra il linguaggio punk e quello hard rock settantiano. Ma rispetto a queste band gli Slint hanno imboccato un sentiero differente: recuperare il linguaggio primordiale dell’hardcore-punk per operare un doppio superamento. Non solo il superamento dell’hardcore in senso stretto, peraltro già avvenuto in precedenza, ma la ripartenza dall’hardcore per un nuovo superamento dello stesso che si esprime anche in un superamento del grunge.

Ed ecco che gli Slint allargano detto linguaggio hc-punk verso la psichedelia e verso improvvisazioni che traducono in un linguaggio rock il free-jazz. “Spiderland” è più di un album, è un disco di svolta! Con quest’unico album (se togliamo l’EP “Tweez”) gli Slint portano le grezze asprezze dell’hardcore verso rarefazioni lente e catatoniche, di stampo lisergico. Una musica dilatata e cerebrale senza scadere nel virtuosismo: è il post-rock. In sintesi gli Slint operarono, negli anni ’90, sull’hardcore, una rivoluzione simile a quella che fecero i Sonic Youth negli ’80. Dai Sonic Youth è scaturito il noise, dagli Slint il post-rock. Alea iacta est e il confine è superato. Dopo gli Slint il post-rock prende il volo alla grande e le band che danno forma alla nuova corrente nascono come funghi. Non un genere ma una vera e propria corrente underground che unisce formazioni diverse nello stile ma unite nell’intento di andare oltre i confini del rock. Di essere appunto “post”.

Troviamo gli avventurieri del linguaggio chitarristico fra prog e post-punk (la triade Tortoise-Don Caballero-June Of 44), i digressori nel noise (Mogwai), i neopsichedelici (Labradford), i nuovi recuperi dell’alienazione dub-industrial (Scorn), le nuove declinazioni del pop (Stereolab), i continuatori della tradizione prog aggiornata ai nuovi tempi (Godspeed You! Black Emperor), i rimescolatori del passato che va dai Velvet Underground a Neil Young e alla tradizione americana (Yo La Tengo, Cul De Sac), i devoti alla classica e alle orchestrazioni della musica da camera (Rachel’s), le commistioni urbane di psichedelia e post punk (Bark Psychosis, Rodan), gli avventurieri nei territori dell’avanguardia colta e delle rarefazione folk (Gastr Del Sol), i protagonisti della nuova elettronica (Oval), fino agli ultimi sprazzi di fine millennio con gruppi come Joan As A Police Woman. Anche l’Italia contribuirà al verbo post-rock con gruppi quali i Giardini Di Mirò e i più avanguardisti My Cat Is An Alien. In seguito il post-rock si barcamenerà fra manierismo e nuovi lavori originali, ma con la fine del millennio la spinta propulsiva e creativa più avventurosa e dinamica può definirsi conclusa.

ROME

Ma se il post rock è stato già per assioma una corrente laterale al pensiero comune musicale, esistono, all’interno della sua lateralità, alcuni capitoli che sono laterali alla stessa lateralità del post-rock. Uno di questi capitoli si chiama Rome. Attenzione: Rome è anche lo pseudonimo di un sideproject di musicista lussemburghese a nome Jerome Reuter, caratterizzato da un (molto interessante) sound che si ispira al folk apocalittico dei Sol Invictus e alle atmosfere dark industrial dei Death In June. I Rome che qui ci riguardano sono stati invece una meteora durati lo spazio di un anno e di un album. L’anno in questione è il 1996 e l’album si chiama Rome, uscito per la Thrill Jockey Records. La formazione è originaria di Chicago, patria di diverse formazioni post-rock quali Tortoise, Gastr Del Sol, June Of 44 e una delle macchie di questa corrente musicale. Sono un trio formato dal bassista Rik Shaw, il batterista Elliot Dick e da uno sperimentatore di elettronica, un personaggio misterioso con lo pseudonimo di Le Deuce. Non esistono chitarre in questa formazione, e questo è già di suo atipico per una band che rientra in un discorso rock.

Quella dei Rome è una storia tanto breve quanto avvolta nel mistero. Pochissimo per non dire nulla si sa dei singoli componenti, nemmeno i loro volti si conoscono. Persino sulla loro identità anagrafica ci sono dubbi e non si sa se dietro a questi nomi si nascondano in incognito membri ben più conosciuti del panorama post-rock. Forse quello dei Rome non è una semplice nuova avventura musicale durata poco ma un progetto collaterale di musicisti di area post-rock in incognito che si celano volutamente dietro a un’aura di mistero. L’unico dato certo è che vi è la presenza di John McEntire dei Tortoise in qualità di collaboratore. L’originalità dei Rome non finisce soltanto col mistero della loro identità ma anche e soprattutto con la creazione di una musica veramente aliena, divergente anche rispetto ai già divergenti parametri del post-rock, come già detto sopra. Una musica dominata dalla manipolazione elettronica che crea paesaggi sonori assolutamente irreali nella loro straniante adulterazione di pulsazioni dub, derive ambientali alla Brian Eno, sfocatura in bianco e nero di scenari industrial.

È una musica che profuma di mistero quanto l’identità dei componenti, dove si pone l’accento sulle potenzialità della manipolazione elettronica. Non vi è sampling perché non ci sono campionamenti di musiche altrui ma vi è un esperimento sui nastri che non è particolarmente complicato, però capace di costruire delle partiture a tinte fosche che sono un travisamento sfocato di atmosfere ambientali quanto di sensazioni dub alla Mark Stewart. Possiamo dire che i referenti sono proprio Brian Eno e Mark Stewart: il primo per quanto riguarda la costruzione di paesaggi ambientali; il secondo per l’investimento di un dub industrial elettronico da alienazione di suburbia. Ma questi due modelli vengono trasfigurati in brani che sono degli schizzi paesaggistici visti attraverso una lente sfocata e per questo irreali e fuori dell’ordinarietà. Non esiste nitidezza ma è come se tutto fosse visto attraverso un vetro opaco dove non si riescono a mettere a fuoco le figure ma si vedono solo delle sagome, di edifici e fabbriche sullo sfondo quanto sagome di figure umane che si muovono. Come se ci trovassimo di fronte a dei Bark Psychosis ancora più alienati.

È post-post-rock quello che si ascolta in questo album così atipico, perché la sua particolarità è quella di aver creato un suono così alieno e laterale da aver superato le coordinate stesse del post-rock. Può essere una moderna versione di industrial music? La risposta è affermativa perché da questo quadro sonoro si percepisce un’inquietudine che è proprio quella che proclamano certe assonanze fra la ricerca musicale e paesaggi di rovine e macerie di fabbriche e capannoni abbandonati; tipico della migliore cultura industrial del periodo fra i ’70 e gli ’80. Ma la differenza fra questo disco e la storica industrial culture consiste nel fatto che quest’ultima è calata nell’angoscia di fine millennio e nello smarrimento così come sono stati ben descritti nel post-rock. Scampoli di melodia appaiono qua e là, come a voler simboleggiare l’aggrapparsi a qualche sicumera, ma vengono annichiliti da cupe ambientazioni industrial e da inquietanti dissonanze di elettronica manipolata. È un disco dove luci che sfarfallano tentano di farsi strada nella penombra, dove brandelli di certezza vorrebbero fornire un’ultima spiaggia nell’incognita dell’inquietudine. Solo nel lungo brano finale si può notare una certa rimonta, un riscatto, come una dantesca fuoriuscita a vedere le stelle, un qualcosa di noto e familiare dopo una discesa nell’ignoto. Questo è quello che traspare dell’unico omonimo album che ora analizziamo brano per brano.

Leaving Perdition
Mark Stewart e Brian Eno in catalessi mentre si trovano in una natural burella dove non si sa cosa c’è alla fine. Fra le manipolazioni elettroniche che riducono e rendono rarefatte le pulsioni dub industrial compare, come una visione, un’allucinazione in mezzo ad un paesaggio di scorie industriali, una melodica, la quale intona melodie che celano cupezza dietro un’apparenza di serenità pastorale. Non si sa se dietro le note di questa melodica si nasconde in realtà una marcia funebre sulla fine dei tempi. Il tono cresce in epicità fino a quando non subentra la batteria ad imbastire una metronomica danza tribale. E poi pulsazioni di basso dub a fare da interlocutore al battito iterato delle percussioni. Ma tutto l’insieme è dominato da un afflato sinfonico, nel creare inquietanti scenari post-industriali.

Intermodal
Loop e manipolazioni per uno sfiguramento dell’ambient verso lidi di isolazionismo post-industrial. Sfiguramento che passa attraverso stridenti dissonanze in sequenza ossessiva, come se fosse un moto perpetuo filtrato attraverso un vetro opaco. È come se il martellante rumorismo industrial di gente come Test Department fosse stato asciugato e ridotto all’osso e sfigurato in un’improbabile ambient dissimulata.

Lunar White
Addirittura uno scampolo di folk che riecheggia attraverso minimali pulsazioni di batteria e scie cosmiche di elettronica. Come uno sprazzo di luce fuoriuscito da ambienti scuri e caliginosi. È un momento di apparente distensione che però viene subito annullato dalla simulazione di una sirena da allarme rosso che fa eco fra le partiture sonore.

She’s A Black Belt
Su sincopi di batteria e sfumature nebbiose create da scie elettroniche si instaura una primordiale e scarna EBM che pare eseguita da strumenti giocattolo. Un capitolo di obliqua follia dove le scie elettroniche si sciolgono in una voce ripetuta in loop che pare provenire da una sonda spaziale.

Rohm
Breve schizzo di loop elettronico reiterato che rievoca un cupo paesaggio ambientale quasi a metà fra una visione terrena e un segnale dallo spazio.

Radiolucence
Onde e frequenze radio aprono a un ambient-dub-industrial dalla vasta profondità che subito muta in una misteriosa e martellante danza tribale percussiva. Poi il silenzio quasi cageano di poche frequenze elettroniche e si riparte con questa danza tribal-cosmica dalle derive industrial (Test Department sempre dietro l’angolo). Come se Mark Stewart avesse varcato una soglia per entrare in una dimensione parallela. Brano che tradisce estasi e inquietudine allo stesso tempo, luce liberatoria e ricadute nell’abisso.

Deepest Laws
Il gran finale è questa lunga avventura sonora della durata di quasi un quarto d’ora. Si inizia all’insegna di un quadro di cupa dark-ambient, dominato da scenari post-apocalittici. Segue un circolare refrain di elettronica che viene ripetuto ossessivamente fino alla fine ed è il perno su cui ruota tutto il resto. Intanto svisate di synth si fanno strada sempre più stridenti e stordenti. Poi monta la batteria e i toni si fanno più aggressivi. Siamo nella trasformazione malata di Mark Stewart. Sibilo e scie danno bordate qua e là fino a quando avviene una truonazione in una cupa incombenza dove il refrain consueto è accompagnato da nuove circolari scie cosmiche in spirale. Si va in crescendo verso una martellante e ossessiva tribal-industrial colonna sonora che man mano che si procede si fa più incalzante e assume la forma di una marcia industrial dalle tenebre verso la luce. È pari alla fuoriuscita da un inferno dantesco questa lunga suite, con il refrain a fare sempre da alimentatore di forze. Un cammino lento e deciso verso un’uscita dalla naturale burella di un profondo e alienato disagio esistenziale post-moderno. Come l’allegoria di una luce in fondo al tunnel. La batteria detta il ritmo di marcia con i suoi movimentati tempi dispari e le staffilate di elettronica sono la forza di questo lungo cammino, fino a che non si vede l’uscita. Il viaggio è finito.

Marco Fanciulli

 

Link:

  • Rome (AllMusic)
  • Ascolta integralmente “Rome” (1996)