KIM GORDON
“The Collective”
(Matador Records, 2024)
Lo scorso 8 marzo 2024 è uscito The Collective, il secondo album di Kim Gordon a cinque anni dal precedente No Home Record. Qualcuno ha detto, scherzando ma non troppo, «a 70 anni Kim Gordon ha fatto un disco trap» perché il produttore Justin Raisen (già al lavoro con John Cale, Lil Yachty, Yeah Yeah Yeahs, Yves Tumor, Charli XCX) ha selezionato un tappeto sonoro electro con campionamenti e basi prese dall’hip hop, a cui sono state aggiunte massicce dosi di rumore. Il risultato è un disco a tratti anche disturbante, lontano dalla «comfort zone» che avrebbe potuto essere per i fan aspettarsi un album sulla falsariga dei Sonic Youth. Kim avrebbe potuto tranquillamente replicare un nuovo Daydream Nation o un nuovo Goo invece, a più di 70 anni, si è rimessa in gioco ancora di più che nel precedente album, concependo un disco profondamente immerso nel presente. Il titolo dell’album è un paradosso: nell’era che stiamo vivendo il collettivo è scomparso, mentre l’io regna sovrano, come evidenziano le due mani che reggono un cellulare (qualcuno che si sta facendo un selfie?) sulla copertina.
Il disco inizia con Bye Bye (uscito anche come singolo) dove, sopra una ritmica insistente sovrastata da un tappeto noise, Gordon fa un lungo elenco di cose da mettere in valigia prima di un viaggio, per poi salutare tutti con un semplice «bye bye». Si prosegue poi con The Candy House, forse il brano più immediato e più riconducibile all’hip hop dell’album, dove si trova l’unico inserto di vera e propria trap, una strofa cantata da Young Baby Goat e dove il ritornello recita: «I won’t join the collective, but I want to see you». Proseguendo poi nell’ascolto si arriva ad I’m A Man, uno dei brani migliori, in cui Kim interpreta, sempre con una base hip hop con inserti di rumore bianco, la perdita d’identità del maschio nel terzo millennio: «Non è colpa mia se sono nato uomo … ho mollato il college, non ho una laurea e non riesco ad avere un appuntamento … non chiamarmi tossico, solo perché mi piace il tuo culo … mi piace tagliarmi la barba così, farmi la manicure, mettere una gonna ma, alla fine della giornata ho perso la mia strada … sarei qui per salvarti, ma tu hai un lavoro e una laurea e io sono solo un poveraccio».
Musicalmente il disco diventa sempre più ostico, le basi ricordano l’industrial, mentre l’argomento dei testi è il sesso (in Trophies e It’s Dark Inside), mentre in Psychedelic Orgasm, un altro dei picchi dell’album, a dispetto del titolo non si parla di quello, ma di droghe. Tree House mi ha vagamente ricordato l’ultimo Alan Vega, con le sue staffilate di rumore bianco, mentre Shelf Warmer riscalda un po’ l’animo con il suo andamento chill out e le parole quasi d’amore sussurrate con voce suadente. Ma è solo un attimo, ci pensano True Believers e la conclusiva Dream Dollar a riportare ancora una volta la barra dell’album verso le ritmiche industriali e i suoni disturbanti.
Una curiosità: dei tre video ufficiali girati per la promozione dell’album, due (Bye Bye e I’m A Man) sono interpretati dalla figlia di Kim, Coco Gordon Moore. Kim Gordon, dopo più di 40 anni di carriera, con questo album non si adagia sugli allori, ma crea un’opera che spiazza, un album di non facile ascolto ma che, sono sicuro, sarà presente in tante classifiche di fine anno e, lo dichiaro subito, anche nella mia.
Mario Clerici
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