PIETRE NASCOSTE DAL SOTTOSUOLO
FIFTY FOOT HOSE
“Cauldron”
(Limelight / Mercury / Big Beat, 1967)
Quando si indaga nei meandri della lateralità e si esplora il mondo degli outsider musicali si arriva ad un punto in cui si tirano delle somme e ci si pone quesiti su cosa effettivamente si intende per lateralità in senso ontologico. È come se ci si accorgesse, ad un certo punto, che è giunto il momento di fare un’astrazione che dall’analisi dei singoli parti artistici di menti outsider porti a definire cosa significhi realmente essere degli outsider musicali. Ed è qui che viene fuori la vera difficoltà. Perché finche si tratta di analizzare il singolo lavoro, si portano alla luce e si sottolineano le caratteristiche di quel lavoro e si spiega il motivo per cui è considerato un’opera fuori dagli schemi. Ma quando si tenta di circoscrivere la divergenza musicale “latu sensu” è come svuotare il mare con un cucchiaio perché si vuole descrivere un qualcosa che per assioma è sfuggente “ipso facto”. Facciamo un esempio: se parliamo di musica folk riusciamo ad estrapolare, in mezzo alle mille e una sfaccettature legate alle molteplici culture del mondo, i parametri che ci permettono di circoscrivere quello che è l’ambito legato ad una cultura musicale folk: la tradizione, l’attaccamento alle radici, la contiguità con la modernità, la sua plasticità di sapersi adeguare allo Zeitgeist dei tempi che cambiano. Ma se entriamo nell’outsider music vediamo che le difficoltà sono ben maggiori perché se esistono dei parametri che costituiscono il minimo comune denominatore per cui un disco rientra nella famiglia del folk, della psichedelia o del metal, nell’outsider music è proprio l’assenza di parametri che non permette una definizione conchiusa del concetto. L’outsider music non è un genere musicale ma una condizione dell’essere, un insieme ampio di prodotti artistici concepiti da menti geniali e fuori dagli schemi, che, secondo la ristretta visione del mondo dei conformati, rientrano nella categoria degli eccentrici, degli stravaganti quando non addirittura dei pazzi. Ed è proprio perché ci sono tanti modi diversi di essere eccentrici che non si può parlare di un’outsider music come genere. Quindi è una battaglia persa in partenza perché si tratta di definire ciò che per sua natura è indefinibile. Certo, l’eccentricità può essere un parametro, non un parametro stilistico, ma non basta: essa è sfuggente di suo perché, per assioma, non concepisce gli schemi. Però esiste una certezza: parecchia outsider music è il prodotto di menti geniali quanto stravaganti che hanno saputo precorrere e anticipare i tempi: hanno avuto quelle intuizioni che con parecchi anni di anticipo avevano previsto e delineato ciò che sarebbe venuto dopo.
I casi si sprecano. Pensiamo solo ai Can, ai Faust, ai Neu! che avevano prefigurato new wave e post punk e addirittura oltre: i Faust come Heimat avanguardistica si possono già definire post-rock perché avevano già ampliato i confini del rock con le loro stravaganti e geniali ricerche sonore. Ma poi l’outsider music è legata anche al clima controculturale di una città che ha vissuto una stagione creativa senza precedenti, di quelle che hanno cambiato il mondo. È il caso di San Francisco, una città che rispetto alle altre metropoli nordamericane è gia di suo fuori dagli schemi. Per essere una delle citta più importanti dell’Unione possiede la prima particolarità di non essere particolarmente estesa. L’area municipale non arriva al milione di abitanti. Se poi consideriamo tutta l’area urbana a partire dalla dirimpettaia Oakland oltre il Golden Gate raggiungiamo i sette milioni di abitanti. Una seconda particolarità è che nonostante sia sulla costa del Pacifico si respira un’aria molto più europea che non a Los Angeles e in altre città della costa ovest. Questo è anche dovuto alla presenza di architetture in pieno stile eclettico primonovecentesco oppure in stile inglese tudor e ai tipici tram a rotaia che fanno parte dell’iconografia della città. È chiaro che San Francisco non è mai stata una città come le altre, e, al pari di tutte le metropoli eclettiche e a misura d’uomo, ha attirato una generazione di artisti e di musicisti legati alla controcultura. Attratti dal clima mite, dall’atmosfera di una città che vive secondo ritmi più umani, e dal suo stesso carattere di essere un luogo sui generis, diverso dalle altre metropoli nordamericane. San Francisco nasce spagnola. La sua fondazione è opera di missionari francescani inviati dalla corona di Spagna che qui vi costruirono una missione (da qui il nome San Francisco). Da spagnola diventò messicana e venne annessa al Messico resosi indipendente dalla Spagna. Quindi venne conquistata con tutta la California dagli Stati Uniti dopo la guerra con il Messico. Dal 1850 San Francisco è statunitense.
Lo sviluppo di San Francisco si deve alla corsa all’oro, l’epopea che attirò in città moltitudini di pionieri provenienti dal resto del paese e dall’Europa, attratti dall’illusione dell’oro. Contestualmente ai pionieri, giunsero in città anche immigrati dal Messico, dall’Asia e soprattutto dalla Cina e a San Francisco nacque la più grande Chinatown del mondo. Come è naturale e fisiologico che accada, la corsa all’oro attirò frotte di avventurieri, bari, biscazzieri, prostitute, delinquenti, assassini e personaggi equivoci, al punto che la baia di Frisco venne soprannominata la “Costa dei Barbari”, dal numero elevato di delitti che vi accadevano. Ma mentre parecchi accorrevano a cercare oro e infelicità, la città si allargava a dismisura e date le modeste dimensioni della penisola su cui sorge, si sviluppò in strade molto strette con un’elevata densità demografica. E con tutto il prosaico contorno di fogne a cielo aperto e di abitazioni malsane. San Francisco di configurò come una “boom town” sviluppatasi con la corsa all’oro. Delle boom town presenta le tipiche criticità e contraddizioni: precarietà abitativa, situazioni perennemente emergenziali, difficoltà nel garantire l’ordine pubblico. Noti furono i linciaggi soprattutto nei confronti della comunità cinese. Eppure, fu questo suo carattere a configurare alla città il carattere di città fuori dal comune, con la propensione di accogliere gente che vuole rompere gli schemi. Una città che se nel male era refrattaria alle regole questo atteggiamento lo rifletteva anche nel bene. Poeti, scrittori, artisti e musicisti si riversarono a Frisco e fecero della metropoli californiana un laboratorio di avanguardia artistico. Questa è l’origine del fatti che fece di Frisco la culla prima della beat generation, del movimento letterario che faceva capo ad Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Charles Bukovsky e poi del movimento psichedelico di fine anni ’60. Però queste rappresentano le avanguardie istituzionalizzate della città. All’interno e a fianco di questi movimenti nella controcultura di San Francisco emersero personaggi singolari e outsider che fecero propria l’Heimat anticonvenzionale della città per esprimere la loro lateralità.
È il caso dei Fifty Foot Hose, originari di San Francisco, una compagine legata alle frange più sperimentali della psichedelia sixties. La band si inserisce nel novero dei gruppi sperimentali dell’epoca, quelli che osavano andare oltre ogni limite. La loro caratteristica è l’uso di ampie dosi di elettronica, tali da prefigurare le evoluzioni future degli anni ’70 (krautrock, ambient music, certa new wave). Possiamo dire che sono stati degli autentici pionieri e che hanno licenziato un lavoro di psichedelia sperimentale fuori dal comune, prodotto di quella fucina di talenti che è stata ed è San Francisco. Cauldron è il loro capolavoro prodotto nel 1967, uno dei dischi più sperimentali della psichedelia californiana. Un lavoro veramente out che ha saputo mettere insieme la fruibilità del rock con le sperimentazioni ispirate alla classica contemporanea e ai primi esperimenti pionieristici dell’elettronica. L’album dimostra la conoscenza dei membri circa le avanguardie novecentesche di John Cage e di Edgar Varese e mostra la genialità nel saper amalgamare dette influenze con l’acido della psichedelia sixties. Un lavoro vicino all’omonimo album degli United States Of America dal quale però, contemporaneamente, si discosta per una predisposizione più psicotica e visionaria. È un disco che anticipa sonorità a venire come l’ambient music di Brian Eno e la kosmische musik teutonica dei Tangerine Dream e Klaus Schulze. Ma è anche un disco che declina la psichedelia sixties in una forma inedita e aliena, visionaria e allucinata come poche.
Ora l’analisi per ogni singolo brano.
And After. Apre le danze un mormorio di synth che man mano che va avanti sale di intensità. L’aspetto è quello di un crepitio dove affiorano spunti di scuola minimalista alla John Cage, ma privi dell’aleatorietà di quest’ultimo. Possiamo dire che siamo dalle parti di un minimalismo progettuale. L’aspetto straordinario è che, attingendo alla ricerca contemporanea novecentesca, questa elettronica primitiva arrivò in anticipo di parecchi anni su molta elettronica sperimentale degli anni ’90.
If Not This Time. Si va in estasi ipnotica accompagnati da una suadente voce femminile alla Grace Slick. Il brano si caratterizza per una sua circolarità, dove ogni strumento gioca la suo parte; e l’apporto elettronico rende il tutto straniante. Si struttura in un movimento ascensionale che crea un ponte fra trasognate dissonanze di chitarra in scampoli jazz, come una versione più psicotica degli United States Of America, divagazioni elettroniche futuristiche alla Luigi Russolo, struttura armonica in forma di dodecafonia lisergica. E il cantato femminile in primo piano, una Grace Slick in bagno galvanico più acido.
Opus 777. Breve intermezzo elettronico pre-krautrock, quello più cosmico. Pare un’anticipazione del Klaus Shulze di Irrlicht.
The Thing That Concern You. Brano lisergico ritoccato da volute elettroniche. Struttura armonica di stampo convenzionale, con voce maschile estatica in pieno deliquio peace&love e circonvoluzioni elettroniche sempre presenti. Rispetto ai brani precedenti c’è una maggiore propensione all’orecchiabilità. Però sempre alla loro maniera: quella di uno stravolto rock psichedelico. Volute elettroniche che si fanno onomatopee di viaggi siderali. Chitarre acide in linea coi migliori Grateful Dead. Un cantato in rapimento che glissa verso vette orgasmiche elevate. Finale in preda ad un’allucinata follia.
Opus 11. Un altro intermezzo sullo schema di quello precedente. Più cosmico e più pre-krauto ancora. Emanazione di onde radio dallo spazio.
Red The Sign Post. Parte in trip lisergico con una ringhiosa chitarra fuzz e la voce della cantante acida come non mai. Un garage-blues in bagno galvanico di LSD. Come se prendessimo i Litter e li facessimo salire su una nave spaziale. Qui la parte del leone la fanno le chitarre con il loro fuzz sin alle stelle, graffiante come carta vetrata. Nei confronti del quale l’elettronica pre-kraut crea un singolare contrasto fra trip subliminale e aspre rasoiate psych.
For Paula. L’ultimo breve stacchetto. È un proto-ambient cosmico, esercizio di elettronica che preconizza il Brian Eno di dieci anni dopo. Inizio nei ranghi per poi volare in una scia cosmica fra le stelle.
Rose. Un blues psichedelico con una chitarra sincopata che prefigura gli Hot Tuna e sempre arricchito dalle volute elettroniche che qui, come in tutto l’album, danno quel senso di ipnosi che contraddistingue il sound del gruppo. Il brano è più vicino ai Jefferson Airplane però dirottati in salsa blues. Da notare il dialogo fra la voce femminile, in forma a piena voce e sussurrata, e la chitarra che pare un amplesso. Poi l’elettronica fa da contorno nel delineare l’ambiente caldo per questo amplesso. Fino a che si converge nell’abbandono a un’orgia baccanalica totale, che poi si rinnova nel finale con il cantato femminile al culmine dell’orgasmo. E una scia elettronica finale spegne il tutto come una resistenza elettrica che si scarica.
Fantasy. Si entra nel vivo della sperimentazione con questa lunga e stravolta jam. Dieci abbondanti minuti di “fantasia”, come dice il titolo, dove sono condensati tutti gli elementi del suono della compagine. Si va dal tema con variazioni lisergic-blues con cavalcata chitarristica, alle dissonanze tra chitarra ed elettronica in pieno stile avanguardista. Gli strumenti e la voce vanno a caso e slegati l’uno dall’altro fino a convergere all’entropia finale dove il tutto è senza regole, nel segno della dissonanza pura. Uno dei brani più stravolgenti degli anni ’60. Da notare la cavalcata chitarristica centrale, un trip lisergico sorretto da scalpitanti movimenti di basso; poi la chiosa acustica mantrica che prende corpo in una dilatazione con basso e batteria per sfociare nel sognante canto femminile. Ad un certo punto crollano le impalcature armoniche e subentra un caotico e anarchico abbandono orgiastico alla dissonanza che in ripetitività sfodera ossessivi giri di chitarra e schegge di elettronica impazzita. Quindi si prende la strada verso un inabissamento in una folle rincorsa impro-lisergic-jazzata che monta fino a esplodere come un follicolo maturo. Tutta la jam è un continuo saliscendi in avventurose montagne russe lisergiche. Un incontro fra Jefferson Airplane, Quicksilver Messenger Service e Red Crayola per una rimbaudiana stagione all’inferno allucinata.
Gos Bless The Child. La sorpresa fuori dall’uovo di Pasqua. Inequivocabile dimostrazione dell’estro eclettico della band. È una cover del grande classico di Billie Holiday, qui in un notturno trip accarezzato da chitarra, batteria. L’elettronica con i suoi sibilanti bip cosmici conferisce una maggior patria di straniamento a questo vellutato classico jazz-blues rivestito di un soave abito trip lisergico. L’abilità della band è tale che il brano non ha perso l’originaria eleganza anche immerso in vapori psichedelici.
Cauldron. Il gran finale. Il brano più avanguardistico del lotto. All’insegna della pura dissonanza, è un collage dadaista di psichedelia; musica concreta tra rumori metallici e voci che anticipa certe cose dei Pere Ubu e rimanda ai coevi Red Crayola; avanguardia alla Edgard Varese (Ionisation e Poeme Electronique) e John Cage, qui nella sua veste pienamente aleatoria; voci psichedeliche in reiterazione ipnotica. Il tutto pare frullato in una sorta di Fluxus. Capolavoro indescrivibile; anticipatore di future glorie. Questo brano non è un brano ma un’entropica suite stravolta priva di un’organizzazione sonora in una determinata struttura; è la nemesi del concetto di struttura armonica. Le parti vocali sono un’accozzaglia di voci femminili sovraincisi fra demenziali deliri infantileschi che sembrano intonare una filastrocca da reparto psichiatrico, ululati, urletti orgasmici, folli gridolii di dolore, voci orribilmente deturpate quasi da film horror. Le parti strumentali si dispiegano fra metallici colpi da musica concreta, loop elettronici strascicati, piatti che vibrano a guisa di gong, oscuri echi di nebulose creati da elettronica primordiale quanto inquietante, sibili che si perdono nel vuoto. Cauldron è un album caldamente consigliato a chi cerca sane avventure sonore.
Marco Fanciulli
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