PIETRE NASCOSTE DAL SOTTOSUOLO
ZIOR
“Zior”
(Nepentha, 1971)
Gli Zior sono stati una delle cult band più significative dell’underground inglese dei primi anni ’70. Un’autentica perla nascosta di quel vivace e attivo sottobosco da riscoprire assolutamente. Potrei definirlo un culto per adepti, per iniziati al verbo hard psichedelico di quei tempi. Essi rappresentano la più efficace sintesi di suono che stigmatizza il passaggio dalla cultura underground sessantiana a quella settantiana. Dagli anni ’60 hanno assimilato la lezione del british blues, così come era stata codificata da John Mayall e poi elettrificata in chiave hard dai Cream. Sempre dai sixties hanno appreso la koinè psichedelica, soprattutto quella americana: le ruvidità lisergiche degli Steppenwolf, le tastiere dei Doors, le acidità della psichedelica californiana in genere. Dagli anni ’70 hanno appreso le derive lisergiche spaziali che partono dai Pink Floyd e arrivano agli Hawkwind e le distorsioni dell’hard rock di Black Sabbath (soprattutto) e Led Zeppelin. Le notizie su di loro non sono tante. La formazione è composta da John Truba, voce e chitarra, Barry Skeels, voce e basso, Peter Brewer, batteria e tastiera, Keith Bonsor, tastiera e flauto. All’attivo hanno due album: l’omonimo Zior e il secondo Every Inch A Man. Prima di cambiare la ragione sociale in Zior si chiamavano Monument e sotto questa sigla pubblicarono un solo LP, The First Monument. Nel 2019 gli Zior si riformano per un nuovo album, Spirit Of The Gods, un valido mix fra hard&heavy e primitivismo tribale fra Africa, India e Messico.
Tutti gli album degli Zior, compreso il primo a nome Monument e la reunion del 2019 sono stati pubblicati in un box di 4 CD, Before My Eyes Go Blind: The Complete Recordings (Grapefruit Records) che raccomando caldamente. Gli Zior sono una band che propone un grintoso heavy-psych, in linea con la produzione underground dell’epoca ma anche con una spiccata personalità legata alle tematiche dell’occulto e dell’esoterico. Tra le influenze sopra citate quella che domina sono i Black Sabbath, il cui hard oscuro, retto su poderose basi blues, viene assimilato dagli Zior e immerso in una galvanizzazione lisergica; il risultato è un bell’hard blues psichedelico che supera a mancina la trappola della derivativa e si propone con una spiccata personalità e grinta heavy. In Italia non sono minimamente considerati, ma nella madrepatria riuscirono a ritagliarsi un culto che dura ancora oggi. Il fondatore della band è Keith Bonsor. Dalle informazioni che ho raccolto Bonsor si è formato dapprima sul jazz e sul rock’n’roll che giravano sul giradischi di famiglia. Quindi prese lezioni di piano e si specializzò nel piano blues e boogie. Ma da buon inglese europeo era anche infatuato da compositori come Bach e Ravel. Proprio questi due hanno fornito al giovane Bonsor l’ispirazione per l’armonia e la ricerca di soluzioni armoniche classicheggianti. Fonda gli Zior alla fine degli anni ì60, prima con il nome di Cardboard Orchestra, poi come Monument e infine come Zior. La band si fa un nome aprendo i concerti di gente importante (Animals, Manfred Mann, Cream).
Bonsor e i suoi menzionano, fra le influenze musicali, Bach, Ravel, Pink Floyd, Cream, Steppenwolf, Allmann Brothers Band, Led Zeppelin, Stanley Clarke, per le tastiere Jimmy Smith, Keith Emerson e Ray Manzarek. Però è stato l’incontro ravvicinato con la musica dei Black Sabbath a dare una svolta decisiva al sound della band. È da questi ultimi che hanno appreso la passione per l’occulto e sempre grazie alla loro influenza che il sound della band si è perfezionato e stabilizzato nella forma di un heavy psych oscuro, tribale e misterioso. Ascoltando gli album degli Zior ci accorgiamo che la band è molto più di un dignitoso prodotto dei tempi. Sono musicisti preparati che hanno appreso lo zeitgeist musicale del tempo e l’hanno rielaborato secondo la loro personale visione. Quello degli Zior è un suono che poggia su una solida impalcatura blues e boogie, utilizza il riff sabbathiano e lo immerge in una liquidità lisergica visionaria e ipnotizzante e vi mescola una bella dose di oscura tribalità percussiva. Il primo album a nome Zior esce nel 1971. Il sound è ormai definito in una scaletta di 12 brani, nessuno uguale al precedente, nei quali l’heavy-psych sabbathiano si sviluppa nelle sue speculari variazioni sul tema e consegna alla posterità un disco del migliore e oscuro (in tutti i sensi) underground settantiano. Ora la recensione per ogni singolo brano.
La copertina. È dello stesso autore della copertina del primo album dei Black Sabbath: Keith Keef Macmillian. Lo stile infatti è il medesimo. Un bambino si trova a cavalcioni di un enorme bufalo immerso nell’ambiente selvatico di un bosco che esplode dei colori dell’autunno. Un ambiente selvatico fatto di rami spogli e contorti come se fosse teatro di oscuri riti pagani. Cover che colpisce lo sguardo con un forte espressionismo legato ai colori autunnali e che lascia intendere il mistero del bosco, quale ambiente di riti ai primordi dell’umanità, quando l’intero pianeta era popolato di selve.
I Really Do. Un circolare drumming tribale che da il la ad un pesante riff che prende la Whole Lotta Love dei Led Zeppelin e la seppellisce sotto un oscuro boogie sabbathiano. Pare di assistere a qualche misterioso rito sabbatico pagano ascoltando questo ruvido heavy-rock costruito su una percussività ossessiva da invasati e su pesanti riff di chitarra hard-boogie, oltre all’assolo chitarristico del bridge, da guitar hero dell’occulto.
Za Za Za Zilda. È una perla di song che ha creato una mirabile fusione fra sixties e seventies. Possiamo descriverla come la giusta e calibrata fusione fra il tribalismo peace and love dell’era hippie, il quale si estrinseca nelle incalzanti trame acustiche e nei cori di background, e il folk-prog di marca seventies, quello però dirottato verso trame tribali oscure. La canzone è immensa perché sa rievocare, con un coinvolgimento da brivido, certe atmosfere paganeggianti e tribali utilizzando il metro del folk.
Love’s Desire. Inno all’amore selvaggio. I Jefferson Airplane che fanno comunella con l’Allmann Brothers Band e si combinano in questo inno dedicato alla passione amorosa, ma concepito con lo spirito selvaggio e pagano. Una chitarra lisergica nel bridge diversifica un brano che procede con un ritmo ossessivo e ripetitivo, di quelli che fanno pensare a rituali danzanti di stregoni invasati, che si esibiscono pure con un cantato da slogan apotropaico.
New Land. Stavolta entriamo a sfiorare i confini del prog sinfonico con questa straordinaria ballad visionaria ed espansa. È un capolavoro di brano che fin dall’inizio mostra di fare faville con il suo organo chiesastico alla Keith Emerson. Quindi si parte con il cantato su uno sfondo di tastiere che traduce in un romanticismo psichedelico il prog dei Moody Blues e addirittura vi si scorge nel timbro vocale un rimando al southern rock americano. Quindi le aperture corali in un limpido stile prog sinfonico. Poi il colpo di scena: chitarra hard-boogie e assolo di flauto alla Ian Anderson. È una mirabile ballad che, senza cadere nella trappola dell’autocompiacimento, riesce a rendere omaggio al prog sinfonico, con aperture di tastiera e assolo di flauto che fanno avvicinare Keith Emerson a Ian Anderson.
Now I’m Sad. È un boogie-blues in mid-tempo di quelli spettacolari. Un atto d’amore nei confronti del magistero british blues di John Mayall e Yardbirds, al punto che pare di vedere i loro fantasmi fra queste note. Brano strutturato su un ripetitivo riff di chitarra boogie, su un’armonica alla Cyril Davies e su un drumming di supporto che prende il boogie e lo rende tribale: l’insieme è terreno preparatorio per i Deep Purple. Le parti vocali non prevalgono e paiono echi lontani che portano la lezione dei bluesman d’anteguerra come Robert Johnson al cospetto di auspici pagani.
Give Me Love. Un altro inno all’amore selvaggio. È la lezione del british blues che viene metabolizzata e porta a scoprire i Deep Purple. Questo è un brano dall’impianto hard-boogie-blues che si esprime con l’atteggiamento di un anthem, un inno all’amore libero nella veste di un grintoso hard retto su una possente ritmica di chitarra, basso e batteria, su un cantato aggressivo, pari ad un urlo bellino, e su energiche parti di chitarra. È energia rock allo stato brado.
Quabala. Ovvero come creare la fusione allucinata fra il tastierismo di una convergenza Brian Auger/Keith Emerson, la psichedelia degli Iron Butterfly e il paganesimo tribale degli Amon Düül II. È un brano strumentale dominato da un assolo di tastiera che fa da sfondo quasi mesmerico, da una ritmica arricchita da una seconda tastiera che evoca le sincopi di In-A-Gadda-Da-Vida degli Iron Butterfly e da vocalizzi paganeggianti a carattere di invocazione di oscure divinità che tanto fanno pensare ai teutonici Amon Düül II. Ma le tastiere nel finale riscoprono Jon Lord dei Deep Purple. È un brano sperimentale che evoca misteriosi culti pagani con il metro di un’iniziazione lisergica, quello che varca la soglia verso il primitivismo più radicale.
Oh Mariya. Un brano che fonde l’hard oscuro dei Black Sabbath con i vocalizzi pagani degli Amon Düül II. È giocato su un deciso e travolgente riff di chitarra hard-blues veloce come una locomotiva lanciata a tutta forza. Il cantato si fa più recitante, sfiora la teatralità, mentre i vocalizzi di background paiono invocazioni propiziatorie. È un esperimento di come un brano dall’impianto rockistico sia in grado di evocare il misticismo paganeggiante, quello più occulto e sacrificale.
Your Life Will Burn. Fra tutti I brani è forse il momento più debole di tutto l’album. La sua miscela di hard rock settantiano e di tastiere fra Emerson e Ray Manzarek non riesce a convincere appieno, e il risultato finale è quello di un hard blues sciacquato, forse un po’ troppo prevedibile e scontato. Un calo di ispirazione per una caduta di tono che strappa a malapena la sufficienza.
I Was Fooling. Una profumata ballad dagli aromi folk, in stile flower power che magari contrasta con lo spirito oscuro della band, ma ci sta benissimo perché svela anche la capacità di creare belle armonie acustiche. Il cantato è un misto fra Beatles e Byrds e la presenza di un flauto da’ un leggero tocco agropastorale e bucolico a questa canzone, pregna di solarità quasi californiane. Proprio la California di Byrds e Crosby, Stills&Nash è la terra che viene evocata in questa agrodolce song acustica e luminosa.
Before My Eyes Go Blind. Si ritorna all’hard con questo montante heavy rock che poggia un poderoso basso pompante adrenalina. Una tastiera alla Manzarek fa da rifrazione lisergica per un brano che è pura tribalità sabbathiana. Ma non solo: questo pezzo ha una forza ipnotica intrinseca capace di creare uno stato di trance, quello di uno stregone capace di mettere l’adepto in contatto con forze sovrannaturali. Ma è il basso uno dei principali protagonisti del brano: esso crea quel tribalismo oscuro sul quale sia un cantato da recita pagana, sia una chitarra liquida fanno egregiamente la loro parte.
Rolling Thunder. Il brano che conclude l’album è una bomba di hard rock’n’roll da paura! Pare di trovarsi di fronte ad un misto fra gli Steppenwolf e il soul di Wilson Pickett però declinati in un grintoso hard boogie di quelli trascinanti. Intro di acustica su un turbinoso ritmo di basso e batteria per un cantato nel più genuino stile arrabbiato rock’n’roll. Echi di soul nella ritmica si intonano con un impianto rockistico hard boogie: c’è anche un piano honky tonk sullo sfondo. Degna conclusione di un album vario ed avvincente.
La ristampa in CD (Repertoire Records, Germany, 2014) contiene una bonus track. È il brano Cat’s Eyes, ricavato da qualche registrazione scovata in un cassetto. È un roccioso e trascinante hard boogie con un cantato grintoso e rauco.
Marco Fanciulli
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